Dopo mesi di polemiche, domattina Jim Yong Kim prende possesso del suo ufficio in Banca Mondiale, Washington, D.C. Indicato dal presidente Obama ed eletto dai venticinque membri del board, rappresenta l’ultima possibilità degli Stati Uniti di far accettare la propria leadership sull’istituzione creata a Bretton Woods nel 1944, che in passato è stata sottoposta a critiche feroci dai paesi in sviluppo e appare oggi incapace di corrispondere alle sfide della globalizzazione. Quando i paesi alleati contro il nazi-fascismo sottoscrivono, nella stazione sciistica del New Hampshire, gli accordi che danno vita al sistema monetario postbellico, intendono evitare al mondo le speculazioni e le crisi economiche che negli anni trenta avevano portato al disastro recessivo e all’inabissamento nella guerra. Si affidano al dollaro e al suo rapporto di stabilità con l’oro, obbligandosi a comportamenti virtuosi e solidali.
Sostanzialmente rispettato negli anni della ricostruzione, il patto inizia a decadere nel decennio dell’espansione. I costi della guerra in Vietnam e l’avvio della rivalutazione delle materie prime nei mercati internazionali fanno il resto.
Il sistema mostra ufficialmente le prime crepe nel 1968 con la cessazione del pool dell’oro internazionale, e crolla quando, la sera di ferragosto del 1971, Nixon annuncia da Camp David la sospensione della convertibilità del biglietto verde. Da quel momento gli Stati Uniti sciolgono le briglie dell’indebitamento, alimentando un disordine monetario dal quale hanno tutto da guadagnare.
Garantiscono stabilità e sicurezza al sistema internazionale politico, e al sistema internazionale economico un mercato di consumo sterminato, così bulimico da far indebitare le famiglie americane per cifre che superano il salario annuo. Banca Mondiale che, con il Fondo monetario internazionale, ha la missione di garantire la stabilità dei cambi, curare i deficit temporanei delle bilance dei pagamenti, offrire sostegno alla crescita in particolare nei paesi in sviluppo, appare prona al liberismo estremista di Washington, convitato di pietra dinanzi alla speculazione globale e alle povertà endemiche di certi paesi d’Africa e Asia. Banca Mondiale, con più di diecimila dipendenti e uffici in più di cento stati, non gode di autonomia di giudizio: la golden share detenuta dal governo statunitense pesa sulle sue opzioni.
Nella situazione attuale, con l’Europa in stagnazione e l’euro in bilico, con gli Stati Uniti super indebitati e i paesi di nuova industrializzazione che chiedono quote di potere in Banca Mondiale, Jim Yong Kim dovrà consentire ad accrescere i meccanismi di prevenzione delle crisi finanziarie e del contagio, e trangugiare mutamenti statutari per allargare, come ha iniziato a fare il Fondo monetario, la sua sfera d’intervento.
Il suo operato dovrà smentire le fosche previsioni di Jagdish Bhagwati, economista della Columbia University saggio e senza peli sulla lingua, che ha scritto parole di fuoco sulla sua designazione da parte di Obama, affermando che “potrebbe rivelarsi un disastro per la causa dello sviluppo”.
Al nuovo presidente di Banca Mondiale Bhagwati rimprovera di esseri espresso, un decennio fa, contro la svolta liberista di Cina e India che ha dato invece ottimi risultati, e di militare a favore dell’approccio microeconomico teso a sanare casi specifici, invece di muovere da una visione ampia e macro.
Bhagwati ritiene che, sbagliando nella scelta di modello di intervento, Yong Kim non sarà efficace neppure nel settore sanitario dal quale proviene, né confermerà i successi registrati in passato contro malaria, Aids, tubercolosi nei paesi in sviluppo.