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May 6, 2012
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FUORI DAL CORO/ Il sintomo della decadenza

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Un'immagine Politecnico di Milano

Un'immagine Politecnico di Milano

Time: 5 mins read

La notizia è minore, quasi minima, nell’ideale gerarchia informativa del lettore medio: rassegnato ad occuparsi, come essenziale nutrimento del suo spirito critico, di una vicenda politica sempre più stanca e lontana, e tuttavia incessantemente riproposta dal sistema dei media “che tiene famiglia”: una di quelle a cui forse neanche dedica una sguardo di sottecchi, così, solo sul titolo. Però è una notizia-sintomo, una notizia-seme, indice di evoluzioni (o involuzioni), viceversa, di grande portata e di grande significato. Il Politecnico di Milano ha deciso che dal 2014 le sue lezioni saranno svolte in lingua inglese.

L’Accademia italiana può vantare molti meriti: non ultimo fra i quali, quello di avere laureato giovani valenti e competenti, protagonisti di una diaspora degli intelletti che, negli ultimi trent’anni, per diffusione interdisciplinare e continuità nelle generazioni, ha pochi eguali nel mondo. Il fenomeno si può prestare a differenti letture; ma è certo che, riguardato sotto il profilo del valore scientifico e culturale medio dei nostri laureati, lascia poco spazio a dubbi: contrariamente a quanto viene ripetuto da certa vulgata, in Italia abbiamo saputo trasmettere e diffondere conoscenza. Al sommo grado, e in ogni ambito. E lo abbiamo fatto parlando e scrivendo nella nostra lingua.

Come fanno i tedeschi, i francesi, gli spagnoli, gli olandesi, i russi, i cinesi, gli indiani, i giapponesi, i brasiliani. E tutti, naturalmente, sano parlare e scrivere anche in inglese. La questione non è di ordine retorico-rivendicativo. E’ di ordine istituzionale e politico. Politico: cioè di rilievo e fondamento pubblici e culturali. Giacchè si discute di lingua, cioè di parola, cioè di Lògos. E la parola, con i suoi suoni, i suoi segni e le regole di uso sue proprie, diverse in ogni nazione e ricche delle esperienze che vi si sono succedute e sedimentate nei secoli, in quanto primario veicolo di apertura verso l’Altro, di dia-logo, esprime, più e meglio di ogni altro elemento, l’identità di ciascuno: in quanto singolo, e in quanto membro di una comunità stanziale e riconoscibile. Esprime l’essere sé stessi.

Solo a partire dall’Essere sé stessi, si può scambiare la propria parola con quella dell’Altro, a sua volta connotato e munito di una parola, di un Lògos suo proprio, che esprime il suo Essere sé stesso. Da un Essere all’altro, lo scambio di sé e della vita presuppone la molteplice identità, la multiforme “personalità” delle lingue. Lo scambio, implicando un adattamento e un’assimilazione di significati e di concetti, cioè una traduzione, è possibile solo se si muove da questa iniziale e reciproca autonomia.

Nelle varie epoche storiche la possibilità di uno scambio sempre più vasto e continuo ha rappresentato anche un fattore egemonico: maggiore è il numero delle persone che ricorrono ad una determinata lingua per “tradurre” le loro identità, confrontarle e scambiarle, maggiore è stata la forza, il prestigio della comunità e dell’apparato istituzionale cui quella lingua è appartenuta. Il latino, di Roma antica prima e della Chiesa cattolica poi, com’è noto, costituisce l’archetipo insuperato di lingua egemone. Ma in entrambi i casi, il primato linguistico andava di pari passo con un primato e un pre-potere politico e culturale. Con le conquiste, cioè: militari per Roma, religiose per la Chiesa, si diffondeva e si espandeva la lingua del conquistatore.

Ora, nel tempo c.d. post-moderno, la trasmissione e l’affermazione del potere politico avviene in forme meno plastiche e più funzionali: la crescita dei mass media, la rivoluzione digitale, la prevalenza finanziaria sull’industria classica, testimoniano tutte di questa nuova veste del potere politico: meno vistosa, ma persino più penetrante dell’avanzata di un’armata o dell’imposizione di insegne imperiali sul frontone di ogni edificio pubblico.

Il maggiore e più condiviso rimprovero che si va affermando nella sensibilità comune contro l’Unione Europea e l’Euro è proprio quello di costituire una sintesi innaturale e presuntuosa di questa dimensione “funzionale” del potere, cioè della politica. L’Europa delle banche e non dei Popoli, come recita lo slogan.

Ecco, che un Ateneo, e uno fra i più famosi e muniti, cioè il luogo sommo di elaborazione e trasmissione della ricerca e dell’insegnamento, decida di adottare formalmente e ufficialmente una lingua non propria, diversa da quella che ha nutrito e modellato la stessa capacità di pensiero, dal primo vagito in avanti, di chiunque sia nato entro lo specifico ambito territoriale che la esprime e da cui trae ragione e  giustificazione, significa avere abdicato al proprio ruolo e alle proprie responsabilità politiche ed istituzionali. Significa non avere capito nulla della propria altissima funzione docente.

I medici e gli ingegneri, tendenzialmente più degli altri, usano l’inglese in tutto il mondo: quando studiano, quando insegnano, quando ricercano, quando pubblicano e quando comunicano fra loro. Ma ciò che rende possibile questo fenomeno grandioso, come fu per il latino, è la permanenza dell’identità di ciascuno, l’Essere sé stesso di ognuno di costoro, preservata dalla libertà e dalla possibilità formale e istituzionale di mantenere la propria lingua quale strumento vivo e attuale di espressione. E’ la necessità di “tradurre”, anche solo mentalmente, un pensiero originariamente autonomo e non confuso: anche quando si ha l’impressione di saper “pensare” direttamente in inglese. Non conta la velocità alla quale la traduzione, lo scambio dei concetti e delle vite ha luogo: conta che abbia luogo e che non possa non aver luogo.

Ignorare la necessità del molteplice, tradisce solo un bigotto provincialismo e una micragnosa rinuncia alla sublime fatica di Essere sé stessi. Ripropone un’accidia omologante che contrabbanda una rinuncia retrograda per avanguardia fattiva.

Forse non è un caso che proprio Milano, anche per la nostra lingua, come per la nostra I Repubblica, come per la nostra moneta, minacci l’ennesimo dissolvimento suicida dell’Italia.

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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