La notizia è minore, quasi minima, nell’ideale gerarchia informativa del lettore medio: rassegnato ad occuparsi, come essenziale nutrimento del suo spirito critico, di una vicenda politica sempre più stanca e lontana, e tuttavia incessantemente riproposta dal sistema dei media “che tiene famiglia”: una di quelle a cui forse neanche dedica una sguardo di sottecchi, così, solo sul titolo. Però è una notizia-sintomo, una notizia-seme, indice di evoluzioni (o involuzioni), viceversa, di grande portata e di grande significato. Il Politecnico di Milano ha deciso che dal 2014 le sue lezioni saranno svolte in lingua inglese.
L’Accademia italiana può vantare molti meriti: non ultimo fra i quali, quello di avere laureato giovani valenti e competenti, protagonisti di una diaspora degli intelletti che, negli ultimi trent’anni, per diffusione interdisciplinare e continuità nelle generazioni, ha pochi eguali nel mondo. Il fenomeno si può prestare a differenti letture; ma è certo che, riguardato sotto il profilo del valore scientifico e culturale medio dei nostri laureati, lascia poco spazio a dubbi: contrariamente a quanto viene ripetuto da certa vulgata, in Italia abbiamo saputo trasmettere e diffondere conoscenza. Al sommo grado, e in ogni ambito. E lo abbiamo fatto parlando e scrivendo nella nostra lingua.
Come fanno i tedeschi, i francesi, gli spagnoli, gli olandesi, i russi, i cinesi, gli indiani, i giapponesi, i brasiliani. E tutti, naturalmente, sano parlare e scrivere anche in inglese. La questione non è di ordine retorico-rivendicativo. E’ di ordine istituzionale e politico. Politico: cioè di rilievo e fondamento pubblici e culturali. Giacchè si discute di lingua, cioè di parola, cioè di Lògos. E la parola, con i suoi suoni, i suoi segni e le regole di uso sue proprie, diverse in ogni nazione e ricche delle esperienze che vi si sono succedute e sedimentate nei secoli, in quanto primario veicolo di apertura verso l’Altro, di dia-logo, esprime, più e meglio di ogni altro elemento, l’identità di ciascuno: in quanto singolo, e in quanto membro di una comunità stanziale e riconoscibile. Esprime l’essere sé stessi.
Solo a partire dall’Essere sé stessi, si può scambiare la propria parola con quella dell’Altro, a sua volta connotato e munito di una parola, di un Lògos suo proprio, che esprime il suo Essere sé stesso. Da un Essere all’altro, lo scambio di sé e della vita presuppone la molteplice identità, la multiforme “personalità” delle lingue. Lo scambio, implicando un adattamento e un’assimilazione di significati e di concetti, cioè una traduzione, è possibile solo se si muove da questa iniziale e reciproca autonomia.
Nelle varie epoche storiche la possibilità di uno scambio sempre più vasto e continuo ha rappresentato anche un fattore egemonico: maggiore è il numero delle persone che ricorrono ad una determinata lingua per “tradurre” le loro identità, confrontarle e scambiarle, maggiore è stata la forza, il prestigio della comunità e dell’apparato istituzionale cui quella lingua è appartenuta. Il latino, di Roma antica prima e della Chiesa cattolica poi, com’è noto, costituisce l’archetipo insuperato di lingua egemone. Ma in entrambi i casi, il primato linguistico andava di pari passo con un primato e un pre-potere politico e culturale. Con le conquiste, cioè: militari per Roma, religiose per la Chiesa, si diffondeva e si espandeva la lingua del conquistatore.
Ora, nel tempo c.d. post-moderno, la trasmissione e l’affermazione del potere politico avviene in forme meno plastiche e più funzionali: la crescita dei mass media, la rivoluzione digitale, la prevalenza finanziaria sull’industria classica, testimoniano tutte di questa nuova veste del potere politico: meno vistosa, ma persino più penetrante dell’avanzata di un’armata o dell’imposizione di insegne imperiali sul frontone di ogni edificio pubblico.
Il maggiore e più condiviso rimprovero che si va affermando nella sensibilità comune contro l’Unione Europea e l’Euro è proprio quello di costituire una sintesi innaturale e presuntuosa di questa dimensione “funzionale” del potere, cioè della politica. L’Europa delle banche e non dei Popoli, come recita lo slogan.
Ecco, che un Ateneo, e uno fra i più famosi e muniti, cioè il luogo sommo di elaborazione e trasmissione della ricerca e dell’insegnamento, decida di adottare formalmente e ufficialmente una lingua non propria, diversa da quella che ha nutrito e modellato la stessa capacità di pensiero, dal primo vagito in avanti, di chiunque sia nato entro lo specifico ambito territoriale che la esprime e da cui trae ragione e giustificazione, significa avere abdicato al proprio ruolo e alle proprie responsabilità politiche ed istituzionali. Significa non avere capito nulla della propria altissima funzione docente.
I medici e gli ingegneri, tendenzialmente più degli altri, usano l’inglese in tutto il mondo: quando studiano, quando insegnano, quando ricercano, quando pubblicano e quando comunicano fra loro. Ma ciò che rende possibile questo fenomeno grandioso, come fu per il latino, è la permanenza dell’identità di ciascuno, l’Essere sé stesso di ognuno di costoro, preservata dalla libertà e dalla possibilità formale e istituzionale di mantenere la propria lingua quale strumento vivo e attuale di espressione. E’ la necessità di “tradurre”, anche solo mentalmente, un pensiero originariamente autonomo e non confuso: anche quando si ha l’impressione di saper “pensare” direttamente in inglese. Non conta la velocità alla quale la traduzione, lo scambio dei concetti e delle vite ha luogo: conta che abbia luogo e che non possa non aver luogo.
Ignorare la necessità del molteplice, tradisce solo un bigotto provincialismo e una micragnosa rinuncia alla sublime fatica di Essere sé stessi. Ripropone un’accidia omologante che contrabbanda una rinuncia retrograda per avanguardia fattiva.
Forse non è un caso che proprio Milano, anche per la nostra lingua, come per la nostra I Repubblica, come per la nostra moneta, minacci l’ennesimo dissolvimento suicida dell’Italia.