Da sempre l’uomo guarda agli oceani come al luogo del mistero e del mostruoso (nel duplice senso di spaventoso e meraviglioso). I significati dell’Hic sunt leones (“qui ci sono leoni”) dell’antichità che dissuadeva le imbarcazioni mediterranee ad entrare in Atlantico, e della balena Leviatano Moby Dick di Melville non sono molto diversi: il grande mare, necessario percorso di conoscenza e sopravvivenza, è assassino che va temuto.
Quando, il 15 aprile di cent’anni fa, arriva la notizia che nella notte è andato a picco al largo di Terranova il lussuoso Titanic, appena varato dai cantieri navali di Belfast, trascinando negli abissi più di millecinquecento persone, la risposta dell’opinione pubblica è quella attonita di sempre in circostanze simili: lo sgomento non distoglie però dal proseguire viaggi, esplorazioni, pesca d’altura. Tant’è che negli anni successivi s’inanellano incidenti e affondamenti di dimensione comparabile. Empress of Ireland naufraga il 29 maggio 1914 dopo una collisione sul San Lorenzo, depositando nei gorghi gelidi più di mille persone l’80 per cento dei trasportati. Lusitania, carico di miliardari americani, affonda colpito dal siluro del sottomarino tedesco U-Boot 20 il 7 maggio 1915, mentre si appresta a concludere sulle coste irlandesi il viaggio iniziato a New York: 1198 i morti su 1861 persone a bordo, primo plotone dei tanti che il mare inghiottirà nel corso della grande guerra. Nel secondo dopoguerra farà epoca, soprattutto in Italia, la perdita dell’Andrea Doria, il 25 luglio 1956, in seguito allo speronamento della svedese Stockholm con prua attrezzata a rompighiaccio: le vittime saranno relativamente ridotte, 47 dei 1663 trasportati. Oggi si spendono centinaia di migliaia di euro per immergersi guardare i resti del Titanic. Da quando, nel 1985, l’esploratore Robert Ballard, grazie alla sonda Argo, ne individuò il relitto, è stato un rincorrersi di iniziative per recuperare memorie e reperti. Si sono aperti musei e memorial (l’ultimo, in occasione del centenario, a Belfast). Il film strappalacrime del 1997, graziato dalla splendida canzone di Celine Dion e dalla coinvolgente recitazione dei giovani DiCaprio e Winslet, ora rilanciato in 3D, ha infiltrato il mito tra le icone della sottocultura globale, a far compagnia a personaggi come il maghetto Henry Potter e la principessa Diana. La tragedia è stata ricoperta di cipria consumistica, accantonando quanto studiosi e commissioni d’inchiesta hanno raccontato.
Ad esempio che un’adeguata regolazione internazionale delle comunicazioni senza fili avrebbe consentito che il lungo tempo di naufragio restituisse un più elevato numero di vite, che un più attento studio delle correnti e del numero di iceberg in discesa dalla Groenlandia avrebbe consigliato di navigare ancora più a sud di quanto già avesse deciso il provetto comandante Edward Smith che, per la cronaca, finì i suoi giorni con chi non aveva trovato posto nelle insufficienti scialuppe di salvataggio.
Si sarebbe dovuto far tesoro dei consigli del vecchio scrittore e lupo di mare Joseph Conrad, nemico giurato di chi stava trasformando le imbarcazioni in hotel galleggianti, lesinando in sicurezza e marineria a favore di arredamenti lussuosi,
mondanità, raffinatezza a tavola.
Attenzione, un processo del genere si sta riproducendo, ai nostri giorni, nell’aeronautica, quasi l’uomo dimenticasse che aria e acqua sono sempre affamati di vittime. E’ scritto nel Tao Te Ching: “Il cielo e la terra non usano carità: tengono le diecimila creature come cani di paglia”.