Monti ama smarcarsi, a quanto pare. Dalle posizioni o dalle condizioni su cui, di volta in volta, pare si stia soffermando o che lo definiscano. Si è smarcato, ancor prima di nascere come Governo, dalle regole ordinarie della democrazia rappresentativa: munito della benedizione e del laticlavio di Napolitano, si è imposto come dues ex machina ad un Parlamento colpevolmente ridottosi in stato di minorazione politica. Mettete la vostra firmetta qui in basso e togliete il disturbo, che devo mettere a posto l’Italia. Venuto sulla scena però, si smarca subito da questa prima posizione "marziana": e bacia le mani ai partiti e alla politica, di cui afferma la indispensabilità democratica.
Trova così, come accade nella politica "normale", sostenitori e avversari: i primi, fra coloro che, abbagliati dal merito implicito di avere concorso alla "deposizione" di Berlusconi, supponevano di poterglisi amabilmente accostare, esprimendogli la loro gratitudine per la felice missione terminale e, già che c’erano, guidandolo con il loro stesso sostegno: Gruppo De Benedetti in testa. I secondi, a dispetto della formale fiducia parlamentare, si potevano trovare soprattutto fra la ex maggioranza di centro-destra; ancora attonita per l’anomalo disarcionamento del Cavaliere, frutto anomalo dell’attivismo quirinalizio e dell’anomala speculazione ammonitrice dei mercati finanziari: entrambi, Quirinale e "investitori internazionali", sia pure da itinerari e per scopi diversi, ritrovatisi tuttavia a cingere d’assedio l’ordinata dinamica democratica. Neanche il tempo di guardarsi in giro e verificare le posizioni, e il buon Prof. Monti, agilmente divenuto attore "dentro" la politica, si smarca di nuovo: e spiazza le posizioni di favorevoli e contrari. Parla spesso e volentieri di continuità con il precedente governo, esclude tabù in materia di lavoro. A Repubblica storcono subito il naso, il sindacalismo barricadero si rianima, nel PD si apre una faglia, Di Pietro e sinistrismo rivendicante gongolano: per il ritrovato cannibalismo sugli incauti alleati, loro essenziale ragion d’essere. Dirimpetto tirano sempre più frequentemente sospiri di sollievo, quando addirittura non gorgheggiano conclamati riconoscimenti di paternità: specie sulla sempre central questione del lavoro. Sta facendo quello che volevamo fare noi e che Fini e la Lega hanno sempre sabotato.
Questa, pertanto, si rinserra all’opposizione perché si scopre senza fissa dimora, valorizzando a più non posso la strenua difesa delle "pensioni" purchessia. Fini, non pervenuto. Lo spread si abbassa, Monti sale e si smarca per la quarta volta. Nega un suo futuro politico, ribadisce di essere estrinseco alla politica ufficiale ma, giorno dopo giorno, comincia a far "parte per sé stesso", avviando la sua trasformazione: da depositario transitorio della normalità democratico-parlamentare a suo consapevole dominatore, naturalmente sotto le insegne sempre più appariscenti di Napolitano. La cui presenza sulla scena della politica attiva, d’altra parte, corre parallela e quotidiana alla sempre più vistosa autocrazia
del Governo: doppiandone i contenuti e l’essenza, forse suo malgrado, istituzionalmente innovatrice.
Se ne accorgono tutti: i partiti in primo luogo e, fra i partiti, il più vigile e provveduto sotto il profilo tattico: "Repubblica". Che lancia il manifesto del Prof. Zagrebelsky (tempi saturi di poenergie cattedratiche, questi) sul "dipende da noi": a difendere i partiti dalle movenze autonomistiche di Monti; e molla gli ormeggi con la Spinelli, pur fra la dissonante voce di Scalfari (sono cose che capitano: ma poi passano, non c’è da temere).
Alfano, impegnato a sprofondare nella coltre organizzativa, incalzato dal test delle vicine elezioni amministrative (che minaccia di registrare vistose flessioni), converge.
Gli incontri periodici con Bersani e Casini tessono una condivisione profuga, culminante con l’abbozzo di riforma elettorale, generica nei contenuti reali quanto precisa nella funzione messaggistica: se non ci diamo una mossa, si dicono i tre, qui finisce che ci liquidano tutti. Si torna al proporzionale, a contare i voti, forse pure le tessere: ma, quale connessione effettiva con i cittadini, sarà sempre meglio, pare abbiano pensato, che collezionare comparsate da questo o da quello. Ospiti sempre meno graditi, apolidi rappresentanti dell’umore televisivo: frutto marcio ma necessario del palio perenne imposto dal maggioritario. Il migliore fra i sistemi maggioritari è peggiore del peggiore fra i proporzionali: quelli volti al palinsesto, questi al territorio.
Ovviamente è questione di misure e di preponderanze, non di assoluti. E’ un’ipotesi interpretativa non peregrina e che merita di essere approfondita. Ma ci sarà modo di tornarci, naturalmente. A questo punto della storia si sono aperte biforcazioni, che sembrano accentuare le tinte del quadro: da un lato, Monti riscopre e approfondisce la distanza battesimale dalla politica ufficiale, brandendo esplicitamente dal Giappone l’arma (tuttavia sempre infida) del consenso degli italiani, a lui favorevole e sfavorevole "ai partiti"; dall’altro, mentre abborraccia una comune difesa sul fronte della riforma elettorale, la "politica" risponde innescando il count-down per il Prof., in crescente e insostenibile ripresa di allure anomala: a sinistra, con il pretesto della riforma del lavoro; a destra, inseguendo il movimento di ritorno della morsa fiscale.
Il Professore, con il Ministro Fornero necessariamente in prima linea, insiste: la metafora delle caramelle, che questo governo non distribuirà, sprigiona clamoroso disprezzo per i partiti, viceversa presentati come pronti ad ogni irresponsabile lusinga; disprezzo certo più paludato, ma sostanzialmente identico al corrivo "fanno schifo" del collega Riccardi.
Ora, però, potrebbe essere la "politica" a smarcarsi dalla sua minorità, e rispondere che non c’è problema se non si distribuiscono caramelle: perché, come cantava Mina, magari "caramelle non ne voglio più".