L’altra settimana, in occasione della chiusura ufficiale delle celebrazioni per l’Unità, nella saletta della Stampa Romana è stato presentato il libro “Fratelli d’Italia: 150 anni di cultura, lavoro, emigrazione”, da me curato per i tipi di Forum Italicum Publishing. Mentre autorevoli interlocutori, Piero Craveri, Luigi Ciampoli, Cinthia Pinotti, ne dibattevano i contenuti, sono stato preso dal ricordo di un altro libro. Diverso, per concezione e contenuti, da quello che ho scritto con generosi amici, metteva anch’esso al centro della vicenda italiana i più umili, il popolo che con il lavoro, dentro e fuori dal paese, ha fatto ricca e rispettata la nazione.
“L’anno più felice della mia vita”, curato da Goffredo Plastino, con un testo di Anna Lomax Wood e la presentazione di Martin Scorsese, narra il viaggio in Italia, alla metà degli anni ’50, del grande etnomusicologo e antropologo statunitense Alan Lomax. Fuoriuscito per sottrarsi all’Fbi di Edgard J. Hoover, in accordo con Bbc e il nostro Centro nazionale di studi sulla musica popolare, Lomax spese un biennio di intensa ricerca su musica e costumi popolari, assistito da uno studioso d’eccellenza come Diego Carpitella. Scrive sua figlia Anna: “So che lavorare con gli italiani, a ogni livello, lo aveva divertito molto: gli erano piaciuti l’acume intellettuale, il senso del tragico e del comico, l’ironia e la capacità di superare ogni ostacolo che aveva trovato in tanti amici”.
Ho scritto in questa rubrica e in “Fratelli d’Italia”, che la vera risorsa di un paese come il nostro, privo di sua gente. E’ stato quel genio a creare ciò che la cultura occidentale moderna considera l’eccellenza di bellezza e armonia, a darci l’unità politica e l’inserimento nella ristretta famiglia delle grandi nazioni industriali. Ed è per non aver più coltivato negli ultimi decenni quel genio con impegno e fatica, che ci siamo cacciati nell’attuale crisi.
Ricordare, a dieci anni dalla scomparsa, Alan Lomax, richiama l’Italia della ricostruzione del dopoguerra, della massiccia emigrazione in Europa e nelle Americhe, dell’abbandono delle campagne meridionali verso le città del centro nord. Il paese andava modernizzato economicamente e culturalmente e rigirato da capo a fondo per materie prime fonti energetiche spazi per le comunicazioni facili e l’agricoltura estensiva, periferico rispetto al cuore industriale europeo, sta nel suo genio, nell’intelligenza e moralità della gettarlo nella contemporaneità, tanto era impregnato
di autoritarismo familiare e politico, e arretrato rispetto ai partner con i quali voleva costruire il progetto europeo. Esprimeva tuttavia un’autenticità, una originalità, che incantava visitatori come Lomax, perché veniva da radici mediterranee primitive, sopravvissute al trascorrere dei millenni: “L’Italia è una terra dalle molte voci, alcune aspre e dolenti, altre estremamente arcaiche… In ogni regione sono giunti fino al nostro tempo un sentimento antico, una cultura locale della bellezza”. Avrei volentieri illustrato il libro edito a Stony Brook con le foto che Lomax fece nell’Italia di paese della mia infanzia, con quei bianco e nero che ritraggono facce intagliate dal lavoro nei campi e nel mare, occhi scuri di ragazze in attesa d’amore, fiaschi di vino e feste del santo patrono. Per toglierci dallo smarrimento del presente, abbiamo bisogno di riscoprire le origini, capire dove sono le radici di quest’Italia che non riesce a ritrovarsi.
Con Martin Scorsese: “Sono sempre stato attratto dalle immagini dell’Italia di un tempo. Fa parte di una mia eredità privata, che devo alle relazioni con mio padre e mia madre… Quello era il mondo dal quale provenivano. Dopotutto, è il mondo dal quale provengo anch’io”.