La questione centrale che si va ponendo, sul piano sociale e politico, nei tempi dell’economia globale, riguarda la trasformazione del legame tra Stato e cittadini. Siccome, nella pratica, gli Stati sono fatti di istituzioni e queste di uomini e donne che le interpretano, può ben dirsi che la questione riguardi il rapporto tra i ceti che governano e i ceti governati. Ma sono ancora solo gli Stati a “governare” i cittadini? Certamente no.
Il concetto di “governo” fa gli interessi dei grandi gruppi economico-finanziari. Va aggiunto che, al servizio dei richiamati fenomeni, è venuta crescendo una nuova “classe” tecnocratica, priva di patria cultura politica ed ideali, dai bisogni materiali incontenibili, che assorbe risorse finanziarie enormi, altrimenti destinabili a qualifiche lavorative inferiori.
Su queste premesse si va consolidando il sistema internazionale che reggerà la famiglia umana nei prossimi decenni, mettendo fine alla lunga transizione dal sistema bipolare. E’ un sistema sufficientemente pacificato, dove le potenze cooperano più che confliggere, e l’esercizio del dominio avviene sempre più attraverso un “soft power” che rinuncia al tradizionale strumento delle armi. E’ però un sistema oggi ampliato a soggetti che sono fuori dalle frontiere nazionali.
Il problema è che non tutti questi soggetti hanno volto e riconoscibilità. Ad esempio l’Unione Europea e i suoi poteri sono visibili e controllati democraticamente.
Non così per le transnazionali economiche e finanziarie; eppure le loro azioni contribuiscono a decidere il destino delle nazioni. Il nuovo della questione proviene da un paio di evoluzioni recenti: lo scadimento del ruolo politico degli Stati rispetto a quello crescente di economia e finanza, la maggiore interconnessione tra gli interessi degli stati sovrani e tra questi e che, attraverso la globalizzazione commerciale e finanziaria generante le nuove forme del potere, conduce la società internazionale e le società nazionali verso assetti politici ed economico sociali che potranno presto rivelarsi a rischio, perché inceppano il funzionamento di principi che hanno fatto la storia occidentale e conseguentemente il mondo della modernità e della contemporaneità, come quello che comanda di garantire la triade democrazia, crescita, welfare.
Il successo cinese, che sostituisce il dispotismo alla democrazia, è un campanello d’allarme che in troppi non avvertono. L’impoverimento dei ceti medi è un altro campanello che suona da anni.
In questa riflessione può assistere il libro curato da Raffaella Gherardi, “La politica e gli Stati”, per Carocci. Illustra come le nostre democrazie siano radicate in due princìpi dell’Illuminismo: la forma Stato fondata sulla ripartizione dei poteri, l’economia ridistributiva e partecipativa che consente ascesa sociale. Su quel filone di pensiero, si è guardato sempre “con molto sospetto” (Gherardi) ogni tentativo di sostituire agli Stati altre forme di organizzazione (ai due estremi: localismi e universalismo) ravvisando il rischio di ritorno al dispotismo.
La globalizzazione sta proponendo agli Stati moderni uno scenario simile a quello dettato per un millennio alle sgomitanti istanze politiche nuove (feudatari, comuni, signorie, stati nascenti) dalle dominanze universali dell’epoca: il Papa di Roma e l’Imperatore germanico. E’ vero in particolare per l’Europa, dove troppi Stati hanno finanze in rovina. La cura imposta da burocrazie finanziarie per conto di soggetti forti spesso inconoscibili, può risultare peggiore del male, perché scansa la questione chiave del rapporto tra governi e popolo. Valga per l’Europa ciò che George Washington raccomandò agli americani nel discorso di addio: stare alla larga dalle “entangling alliances”.