Volere spiegare la crisi economica, ogni crisi economica, è come volere spiegare le origini dell’universo. O ci si ripara sotto un atto di fede o restano un abisso inesplorato. In un caso se ne contempla appagati la perfetta e terribile immensità, nell’altro se ne scruta inquieti la porzione visibile e conosciuta.
Pare così che per alcuni sia tutto illuminato, sebbene non luminoso: i mercati non vogliono più Berlusconi perché il suo governo è colpevole della crisi: con la sua inerzia, sul fronte della crescita, con la sua insufficienza, per come ha gestito il debito.
Scovato il male, cioè Berlusconi, segue la terapia, cioè Monti. Fine della storia. Questo paradigma, oltre al pregio della chiarezza, ne presenta vari altri, di non trascurabile utilità.
In primo luogo, precostituisce spendibili spiegazioni per il caso in cui la terapia non dovesse funzionare. Si direbbe: era talmente grave la malattia, da risultare incurabile e, perciò, doppiamente colpevole; colpevole di esistere e della sua stessa incurabilità. In secondo luogo, come ogni atto di fede, inibisce il dubbio, pena la scomunica. Che, nelle nostre faccende, può significare, a giro di posta, la gogna di una qualche indagine debitamente “anticipata” da immancabili “fughe di notizie”. E un’ipotesi di reato, dopo diciannove anni di scorribande procuratorie, si drizzerebbe ormai da sola ad annichilire l’incauto scettico, come un cane ben addestrato a cui per ubbidire basta che il padrone inarchi un sopracciglio. Sicchè, posta la faccenda in questi termini, non resta che raccogliersi in preghiera e salmodiare con la Spinelli. O con la Gruber. O con “scaitiggiventiquattro”. Fate voi.
Ma per quanti si ostinassero a sottrarsi alla luce, per quelli che ancora si ricordano di Lehman Brothers, del e, prima ancora, dei rassicuranti e autorevoli pareri espressi su Enron, su Worldcom, su Parmalat, su Cirio e così via, dal trittico Moody’s-Standar&Poor’s-Fitch; per quanti trovassero incongruo, per esempio, prendere lezioni sulla Grecia truffaldina proprio da quella Goldman Sachs che la truffa concorse ad ideare, oppure sulla debolezza dell’Euro proprio dalla Germania che ne volle il mostruoso concepimento, mezzo cilicio, con cui limitare la mobilità delle leve monetarie, cioè tasso di sconto e svalutazioni competitive, e mezza cintura di castità, con cui mortificare ogni peccaminosa fecondità verso la crescita, in nome del 3% di massimo deficit, tentiamo, quanto meno, una rassegna dei nostrani pontefici massimi. A vellicare eresia e blasfemia, oltre a perdere l’anima, il rischio è solo di scoprire impostori; e qualche verità, certo in chiaroscuro, ma, per questo, meno aliena di certi dogmi “de noantri”.
Il lume del dogma si adombra perchè tutto, ma proprio tutto, l’ordito critico verso Berlusconi è tessuto da soggetti in aperto e formale conflitto d’interesse con il gruppo Mediaset. De Benedetti ha appena ricevuto una provvisionale da oltre mille miliardi delle vecchie lire, a transitorio coronamento di un’inimicizia ventennale: coltivata con Repubblica, l’Espresso e tutti i quotidiani locali del gruppo. Murdoch è diretto concorrente sul mercato televisivo.
Quanto a La Sette, Telecom, formale proprietario, è un agglomerato da trenta miliardi di debiti verso le banche. Per non parlare di Fiat, cioè di Stampa e Corriere.
E veniamo così al nocciolo della questione. Nocciolo perché le banche sono, ad un tempo, la crisi e, insieme agli altri disinteressati cantastorie, narratrici della crisi.
Infatti, seppure è vero che esse, grazie ad una propensione marginale al risparmio tradizionalmente alta in Italia, e ad una solo moderata partecipazione al sabbah mondiale dei derivati miracolosi, stanno meglio, ma molto meglio, di quelle europee ed anglosassoni; è altrettanto vero che sono, ovviamente, integrate nel sistema, cioè che anche per loro l’habitat è il mercato interbancario mondiale, e che in una crisi a dominante componente finanziaria, le banche costituiscono la prima linea del fronte. Il diluvio investe anche loro. Sono, perciò, la crisi. Ma sono anche narratrici della crisi, perchè in Italia le banche controllano le maggiori imprese (Fiat, Telecom) tramite il lorodebito; queste sono proprietarie dei giornali e delle televisioni.
Spesso con incroci e alleanze, ad “ottimizzare” le catene di controllo e di influenza. Emblematico il caso di Gad Lerner, buon amico di De Benedetti e giornalista di punta di “La Sette”, gruppo Telecom, ammanettato a Intesa San Paolo.
Ora, le banche si difendono dalla crisi in due modi, essenzialmente. Uno opera sul piano della crisi. Riducono gli impieghi. E lo sanno le milioni di piccole e medie imprese in crescente asfissia; lontane le mille miglia dai sostrati protetti e “Soi-disant illumineè” che reggono la scalpitante Confidustria di Marcegalia e del Sole 24 Ore.
E l’altro opera sul piano della narrazione della crisi. E’ il piano delle appartenenze, quello in cui devi donare l’oro alla patria.
Quale patria? La patria bancaria, quella dei Too Big To Fail, dei piani alti, dell’old money, dei flussi continui fra uffici degli Enti che dovrebbero essere controllati e uffici degli Enti che dovrebbero controllare. Dal FMI alle Big Ones e viceversa, passando per le più prestigiose università. For examples: Draghi, da Goldman Sachs a Banca d’Italia e, fresco fresco, Bini Smaghi da BCE ad Harvard. Il rimedio delle appartenenze si declina oltre le angustie degli Uffici-fidi e si fa gioco (gioco si dice per dire) politico: e perciò propaganda, fazioni, schieramenti.
In Italia, ricordiamolo brevemente, la fazione vincente è quella struttura fascistoide, culturalmente retriva e bigotta, politicamente premoderna e istituzionalmente eversiva, che lega il ganglio transpadano a centri d’interesse e di potere stranieri. Né nascosti né informali. Gli stessi che negoziarono la “pace separata” con gli inglesi, consegnandogli Supermarina e il dominio sul Mediterraneo; che poi furono messi al muro da Mattei, il “Grande Corruttore”, la minaccia più seria mai portata al Foreign Office e a Quai D’Orsay nello scacchiere del Vicino e Medio Oriente e del Maghreb, con tutti gli annessi e i connessi petroliferi. Colui che sostenne la liberazione dell’Algeria e piantò la nostra bandiera su tutti i giacimenti del mondo, reinterpretando Yalta con tipico genio italiano e costruendo autostrade energetiche con l’Unione Sovietica e con tutti i Paesi produttori, legandoli a noi con condizioni negoziali illuminate e, per questo, privilegiate rispetto a tutti gli altri. Quello che fece dell’Italia una media-potenza e una Nazione ricca. E che, per questo, fu abbattuto. Gli stessi centri d’interesse, rubricati sotto la formula anodina di “mercati internazionali”, che oggi ci attaccano, come tutti a parole pacificamente riconoscono: come se gli ordini di acquisto o di vendita fossero anonimi.
Ma allora la crisi non c’è? Berlusconi non ha colpe? No, no, la crisi c’è. Ma, per tentare di comprenderne origini, dinamiche e responsabilità, è di fondamentale importanza come viene narrata.
E le colpe di Berlusconi ci sono e sono molteplici, ma una sormonta su tutte: non ha scalfito, se non a parole quell’assetto di potere.
E’ una colpa grande. Ma non c’è dubbio che il compito era difficile, titanico quasi. Soprattutto considerando che alla forza che gli deriva da tali alleanze, questo grumo parassitario ha saputo saldare i beoti eredi di un glorioso comunismo nazionale, assetati solo di un movimentismo maccheronico e sterilmente demolitorio, marcio trionfo del bubbone sessantottesco, tronfio quanto autoreferenziale. Il tutto sublimato e protetto dalle falangi micidiali dei pretoriani in toga, gli uni e gli altri intrisi della stessa sottocultura rivendicazionista votata al piagnisteo più vile e deresponsabilizzato.
Perciò la crisi c’è. In Italia come in tutto il mondo. L’Italia però è politicamente più debole, perchè privata, non priva, di una consapevolezza nazionale. Il bunga bunga non c’entra. Può valere a descrivere una mediocrità di condotta non più gravosa, per le dinamiche di crescita di un sistema complesso come uno stato, di quanto non sia uno stanco congresso di partito.
Purtroppo per la limpidezza dei dogmi esiste la geopolitica. E la guerra. E il mors tua vita mea. Da sempre. E per sempre.