Un’immagine di Gheddafi poco prima di morire
Gheddafi come Ceausescu. Il Raìs come il Conducator. In che senso? Nell’unico senso ammesso dall’industria delle news. Sì, perché la morte del Colonnello, oltre al nutrito filotto di prospettive strategiche e di resoconti compunti, che sciamano in queste ore e sciameranno nelle prossime sui nostri schermi, si presta a qualche considerazione sull’estetica del linguaggio telegiornalistico. Niente paura. Non lambiremo nemmeno le fascinose trame semiotiche del Prof. Eco; anche perché non ne saremmo capaci. La faccenda è molto più semplice.
Il volto tumefatto, le ferite mortali, il sanguinamento rappreso e illividito, gli occhi vitrei e sbalestrati, il corpo sconciamente insaccato in abiti sgualciti da una fuga impossibile, un suolo anonimo ad incorniciarne l’immonda giacitura, sono le stesse di quelle diffuse nel Natale del 1989. Lì c’era pure la moglie. Qui no. Lì cappotti e colbacchi, qui spalle nude e fregi beduini disseminati ai margini dei fotogrammi.
Ma, a parte queste diversità, diciamo grafiche, l’immagine è identica: nel suo vuoto informativo, come nel suo pieno impressionistico e pornografico.
Ma, soprattutto, identico è il sabba pio e manigoldo che ne ha accompagnato la presentazione.
Donne e uomini abbelliti come modelli, in perenne e insanabile conflitto con grammatica e sintassi (quelli di Sky meritano una menzione d’onore), convulsi dal ritmo isterico della finta urgenza con cui annunciano l’ovvio, il risaputo, il pianificato, ci hanno presentato il Gheddafi "giustiziato". Ovvio,
risaputo e pianificato perché dovendo occupare circa quattro ore il giorno dei palinsesti, i dieci-dodici telegiornali, con annesse linee di approfondimento, commento e analisi, finiscono col parlare e straparlare sempre della rava e della fava. Per inciso, sempre modesti questi qui: in un mondo ordinato la gran parte non passerebbe un esame di terza media ben congegnato e tra Proust e Prost non pochi rischierebbero imbarazzanti (mai imbarazzati) silenzi. Però sono sempre pronti ad approfondire e, bontà loro, "far capire". Tutto questo in diretta, naturalmente. E, naturalmente, essendo questa informazione una parodia di sé stessa, non si finge neanche di tentare un tenue raccordo con quella pretenziosa parola. Informare, infatti, implica certo il crudo comunicare. Ma anche l’insopprimibile effetto di educare, cioè condurre, facendo della notizia il veicolo verso uno scopo. Si danno le notizie di c.d. attualità allo scopo di conoscere lo svolgimento della vita associata: del comune, della grande città, dell’intera Nazione; l’evoluzione o l’involuzione dei suoi costumi. Si danno quelle di politica per favorire la partecipazione alla vita delle Istituzioni. E così via. C’è sempre uno scopo: ci deve essere.
Ma, oltre che per lo scopo cui tendono, le notizie dovrebbero educare anche per il modo in cui sono date, secondo un’intima congruenza fra contenuto rappresentato e quella sommatoria di segni che chiamiamo "espressione" e che, sola, ci dice se chi rappresenta sa o non sa veramente quello che dice. E, dunque, se chi rappresenta è degno di credito e considerazione oppure no. Tali segni rimandano al linguaggio primario e istintivo dei sentimenti, sedimentato nel cuore dell’Uomo e codificato nei secoli. E poichè tali segni affiorano sul viso, dalla voce, dallo sguardo, dai gesti, persino dall’abbigliamento di chi rappresenta e ne determinano la reale percezione, segnalandone, fissandone, incorniciandone quasi, il reale valore, le definiamo estetica del linguaggio. Volendo significare che la comunicazione, dall’alba del mondo, trova nella parola solo il suo complemento e che in realtà essa scaturisce e comprova la sua verità a partire da quel complesso e intricato sistema di segni e segnali con cui si ordina e sboccia alla vita.
Invece pistole d’oro e città distrutte, folle festanti e dilemmi energetici, vendette tribali e democrazia nascente, si sono frammischiate ed hanno attraversato compatte e turbinanti le icone, ora semisorridenti per il trionfo della giusta causa, ora seriosette per "il costo in vite umane", ora, e più frequentemente, imbalsamate nel loro cerone beato e monocorde, di conduttori, di esperti, di una varia comparsante umanità. Così la polvere, la guerra, il dolore, la morte sono rimaste intraducibili e neglette da un’apatia percettiva e narrativa, neanche affannata a cercare un labile raccordo, un filo esile con quanto diceva di voler proporre.
La stessa congruenza, se ci pensate bene, pretendiamo da chi, in modo più cristallino e onesto, si presenta sul palcoscenico di un teatro e, dichiarandosi attore, impersonando quel personaggio o quell’altro convoca la nostra sensibilità, il nostro mondo interiore ad una verifica ed una nuova prova. Se chi ascolta non riconosce quell’intimo raccordo, chi sta sul palco viene fischiato. Come un incapace o un impostore. Ci si dovrebbe allora attendere che chi si affaccia su uno schermo, tanto più che non impersona personaggi immaginari, ma, come dire, pretende di ravvivare quel mondo interiore direttamente con fatti c.d. reali, abbia un onere di congruenza persino maggiore. Questa lineare dignità, a ben vedere, è il fondamento e la nobiltà di ogni cronaca, critica o informazione che dir si voglia.
Ora, con Gheddafi ridotto a carne morta si è celebrata, an- cora una volta, la superfluità e, prima ancora, la perniciosità, di una simile parodia della notizia, che significa cosa notabile. Parodia che, sia chiaro, è la regola nella temperie sfilacciata e volgare in cui trova viceversa giustificazione la presente industria del vaniloquio e del chiacchiericcio, convintamente contrabbandata e ricevuta per informazione; essendone, invece, il suo esatto contrario. Correlativamente, è assai dubbio che una tale bolsaggine organizzata in industria possa seriamente costituire materia di un diritto. Cioè di una pretesa tutelata; e tutelata perchè essenziale alla crescita di ciascuno.
Mentre ci veniva offerto quel grumo umanoide, era oltraggiata l’idea stessa della morte, il suo più misterioso e inquietante senso di fine, di silenzio, forse di trapasso verso un ignoto sublime e indefinibile. E, al suo posto, si accalcavano i colori pornografici degli studi televisivi, l’indifferenza opulenta di ragazzetti vistosamente disavvezzi alla riflessione e alla lettura, alla sperimentazione del semplice, dell’immediato e del reale. Figuranti nutriti da una lunga consuetudine con gli apprendimenti superficiali e posticci grondanti dai loro strafalcioni, che hanno assunto la veste, insieme grottesca e alienata, di vestali corrotte in un orgia di sonorità informi e visioni evanescenti.
Il correlato, questa volta coerente, di responsabili istituzionali, governativi e non, ignari della storia italiana remota e recente, goffamente inadeguati a leggere e a contrastare l’attivismo anglo-francese, a proteggere, con argomenti politici, prima ancora che con le armi, gli interessi del Paese che vorrebbero rappresentare. Ambigui quando inneggiano al diritto internazionale ridotto ad una clava; marginali quando si affannano a presentarsi come vincitori; tacitianamente feroci quando fanno il deserto e lo chiamano pace; vili e primitivi quando incrudeliscono sul nemico sconfitto; patetici quando distinguono morto da morto, sangue da sangue, Saddam da Muahammar. In questo nulla i venticinquemila morti in Libia, maramaldescamente attribuiti al solo sconfitto, sono lo sfondo, eticamente degradato, del perenne giustificazionismo smargiasso con cui i vincitori sono
raccontati da un mestierare giornalistico ruffiano e invertebrato.
I morti dell’Iraq non sono stati meglio compianti: sono stati impiegati come merce postuma dal politicare sbrecciato e traffichino, diffuso su scala mondiale e che trova sempre pronto ricetto dalle parti dell’ "Italia migliore" di Repubblica &C.
Corrompere la parola è altrettanto grave che corrompere un pubblico funzionario; in questo caso si manomette la cosa, in quello lo "spirito" della cosa.Questo abbiamo visto e pensiamo di dire di fronte alla caduta di un tiranno sanguinario. Prima che ne sopraggiunga la consueta e programmata dissolvenza dai palinsesti, e dalle coscienze di ogni uomo buono e giusto col telecomando in mano.