A sinistra Steve Jobs (San Francisco, 24 febbraio 1955 – Palo Alto, 5 ottobre 2011)
Uno si accinge a scrivere qualche parola di commento su un fatto della vita pubblica italiana. E si chiede: di che scrivo? Allora vediamo… sì, il cerchio intorno a Tremonti si stringe e, sul proscenio malandrino e maramaldesco dei mercati finanziari, dopo l’accigliato downgrading di Moody’s sui conti pubblici italiani, si sono avuti due giorni consecutivi di rialzo ruggente. Forse ne avrà avuto imbarazzo. Analogo disinteresse ha sucitato l’auspicio versipelle del Dott. Giulio, quello sulla mancanza di elezioni che terrebbero in cagnesco gli investitori. Naaaa….
Oppure: Sergio Marchionne compie un gesto simbolico di vastissima portata, per l’Italia. Tutto già ampiamente annunciato, ma Fiat che esce, e sbattendo la porta, da Confindustria chiude il sipario su una scena che dura dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. E apre una breccia sulla sua stessa storia, indica una via per sfuggire alla palude. Va già meglio.
Allora quello va su Google per una verifica, sta per digitare la parola chiave e legge: Steve Jobs 1955-2011. Scrive Steve Jobs e lo scopre. E’ morto. Casualmente lo scopre quasi in diretta. E si ferma. Mentre si diffonde l’inevitabile foll-out mediatico, comincia a pensare a quest’uomo, così importante, così famoso. Eppure, fino a poco tempo prima, non è che sapesse bene bene chi fosse. Certo, la Apple, la vision, i computer degli artisti, dei grafici, l’anti-Microsoft. Ma così, in generale. Del resto lui, il povero commentatore di fatti italiani, con l’IT non ci andava esattamente a nozze. Ma poi, a un certo punto, gli era capitato fra le mani, un regalo, l’I-Phone. E senza neanche sapere come, aveva cominciato a fare cose normali, tipo fotografare, filmare, telefonare, inviare e leggere messaggi e What’s Up e la Mail e You Tube e FB e tutto il resto. Ma non era questo il punto. Il punto è che si divertiva. E si divertiva perché gli veniva facile. Si sentiva riscattato. Non era un più paria, lui, naturalmente refrattario (ma sì, diciamolo) ad alcunchè che fosse appena più informaticamente complicato di un Foglio Word.
Così aveva cominciato a sapere un po’ di più su quell’uomo, su Steve Jobes. Ma non aveva fatto ricerche infinite, simposi, corsi compatti di chissà che. Gli era bastato capire che era un genio. E si era inchinato. Basta. E non un genio qualsiasi, per così dire; ma uno di quelli che soffiano nelle vite altrui l’alito fraterno del sapere inaspettato, di una didattica lieve, gratuita e tuttavia
preziosa, fondatrice. E’ stato l’unico? E’ meglio il Galaxy? Sono domande piccole, con cui alcuni misurano lo sgomento di fronte alla grandezza. E’ stato il primo. Sempre un passo avanti. Uno così non scorge le idee, non le trova. Le idee trovano lui: alla stessa maniera in cui l’incanto della creazione, l’immensità del cosmo, la potenza della natura decidono, ad un certo punto, in qualche misterioso modo, per qualche imperscrutabile ragione, di
esprimersi al meglio, di riordinare le cose e di illuminare la pletora di formiche che inesauste e inconcluse punteggiano il pianeta. E le idee, impalpabili e infinite, trovano Mozart, Fidia, Leonardo, Newton, Archimede, Dante, il Grand Canyon, le Alpi. E Steve Jobs. Il quale però non è stato, come ogni genio, solo il depositario eletto ma inerte di un soffio divino, non è solo chi ha ricondotto ad unità, un’unità familiare, semplice, simpatica, docile, incoraggiante, la puntuta varietà dei software, che nel tocco di un polpastrello ha sprigionato la mimèsi di una gestualità magica. Si è preparato a ricevere quel soffio. E lo ha fatto seguendo i fili di una trama che, nelle sue giornate, nelle sue svolte, nelle sue pause, è stata pur’essa seducente e inconsueta. Un concepimento giocoso e spensierato. Una gestazione subito fattasi pensosa e, a suo modo, responsabile e lungimirante. L’adozione condizionata alla tutela degli studi, alla meta protettrice e rassicurante della conoscenza. Una sorella segreta. La giovinezza sbocciata in un tempo e in un luogo, Cupertino, California, tra i ’70 e gli ’80, che erano un turbinare incessante e fecondo di iniziative, un’anomalo ed esaltante fermento creativo: persone, mattoidi, visionari; ma anche finanziatori illuminati, quasi mecenati. Il successo, la caduta, Pixel, Toy Story, la rinascita, il trionfo. La malattia.
Ecco, proprio di fronte al limite, di fronte all’oscurità, all’incertezza livellatrice di ogni vetta, di ogni orgoglio, denudato di fronte alle sue finitezze, l’uomo, il depositario del soffio divino, non ha cessato di essere straordinario. Anzi, dove la genialità cosmica e la rarità dell’uomo si sono riunite, credo sia stato proprio nel suo breve, piano, potente discorso sulla morte.
Lui, il profeta della simultaneità, della conoscenza pronta e fulminea, della vita accelerata e moltiplicata nei suoi ritmi folgoranti e rapinosi, consegna al mondo un testamento morale reverente alla maestà della morte, all’immoto eterno che produce.
Ancora una volta, non è certo stato l’unico a parlarne, s’intende. Né a riscoprire che solo nella morte, attimo per attimo, respiro per respiro, passo per passo, la vita si dispiega, che solo la morte unicamente, autenticamente, ineffabilmente, sa farsi levatrice della vita. Ma le conquiste del pensiero, le espressioni di saggezza, per quanto grandi, se non riproposte incessantemente, pian piano si acquietano, fino a svanire.
Il discorso di Jobs a Stanford ha tradotto per il suo tempo l’eterna sapienza che viene dalla morte, mediante la ieratica sobrietà del suo volto, la scarna semplicità delle sue parole. Facendosene moderno interprete. Ha ricomposto il genio raggiante e vorticoso dell’immediato, del visibile, nell’uomo che si ferma a contemplare l’impalpabile e il doloroso dell’ignoto. Riaprendo così il pensiero dei giovani ad un cammino più sobrio e grato verso il futuro. Se volete, perché no, lo ha fatto come Cristo, o come Buddha, o come l’Uomo. Come Jobs. Ma sto divagando. Che dicevamo? Ah, sì, Tremonti, Marchionne.…