Un’esordiente Marisa Del Frate, interpretando la canzone di De Crescenzo e Rendine, si chiedeva, nel lontano 1957, dove fosse finito il sospirato uomo della vita, e se sarebbe mai tornato. Vinse il festival di Napoli con il suo rimpianto d’amore, lasciando ai posteri il melo di un ambiente malinconico e autunnale dove “Erano verde… erano verde ‘e ffronne. E mo, so’ comme suonne perdute… e mo, sóngo ricorde ‘ngiallute…”. Ci domandiamo in tanti, in questa sorta di “malinconico autunno” nel quale ci ha cacciato la crisi, se rivedremo mai il “verde” mondo nel quale siamo cresciuti e che abbiamo amato.
Siamo nel mezzo di una stagione economica e politica di estrema durezza. Se l’Europa piange, l’America di certo non ride, anche se Obama prova dimenticare che tutto iniziò proprio dalle finanziarie statunitensi e che l’infezione che ci sta facendo ammalare viene dai vizi del capitalismo americano e dall’incapacità dei Federali di controllarne gli animal spirits di smithiana memoria. La democrazia americana non si è ancora ripresa dalla sbronza della vittoria contro il comunismo sovietico, è come ripiegata nella sua fortezza, né sembra avere intenzione di riprendere, ammesso che ne abbia ancora la forza, la guida del mondo che una volta chiamava libero. Abbandonata la teoria che fosse sufficiente lo strapotere militare a garantire la sua influenza sugli affari globali, Washington si è come arrestata, non ha prodotto soft power per traghettare il mondo verso il sistema post-bipolare. Ci ha collocato tutti nel guado, e intanto la marea si alza.
Primo indizio della marea, il rising del potere dittatoriale cinese, tuttora lontano dall’incutere timore a democrazie come India e Giappone, eppure consapevole di disporre del più cospicuo forziere finanziario mondiale, accumulato grazie alla pervicacia americana nel vivere al di sopra dei suoi mezzi. La Cina deve fare i conti con enormi problemi come lo sballo ambientale, gli squilibri città campagna, la bomba demografica (troppi maschi e troppi vecchi), ma ha gente disciplinata, abituata a soffrire, vogliosa di rivincite verso la sua storia. Sinora il potere ha fagocitato il nascente capitalismo e represso il dissenso politico. Finché l’economia gli darà ragione, difficile che le cose vadano diversamente. Pechino sta provando a partorire il primo modello di successo dell’era contemporanea, che coniuga sviluppo socio-economico e assenza di democrazia. Qualcosa del genere lo mise in piedi il nazismo, e sappiamo come andò a finire.
A immalinconire è soprattutto l’Europa. L’espansione ad est non è stata un buon affare. L’inclusione nell’euro dei paesi mediterranei sta presentando tutti i guai che i tedeschi avevano temuto, quando avevano provato a tenerli fuori dall’euroclub. Ma non basta a spiegare la caduta libera che sta caratterizzando questa stagione politica ed economica del vecchio continente, dopo le esaltanti pagine scritte dai Jean Monnet e Altiero Spinelli, dai Kohl e Delors. E’ che la generazione al potere non crede più nella forza dell’idea di foedus europeo, e il neo-nazionalismo non paga.
Come italiani ce la passiamo anche peggio degli altri, immiseriti da scandali e comportamenti che ci fanno percepire all’estero come votati all’autodistruzione, incapaci di impegno civico e senso della cosa pubblica. Spaventa l’evidente mancanza di classe dirigente adeguata alle sfide. Spaventa vedere figli che preferiscono bighellonare piuttosto che adattarsi al lavoro manuale, e figlie che vanno in televisione a dire che prostituirsi con ricchi e potenti è mettere doverosamente a frutto la propria avvenenza fisica. Andremo a fondo, senza attingere alle virtù cristiane e repubblicane.