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September 25, 2011
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LETTERATURA/ Traduzioni e “teppismo”

Vincenzo PascalebyVincenzo Pascale
Time: 5 mins read

 

La provincia italiana continua ad essere fucina di talenti e catalizzatrice di narrazioni. La traduzione, esercizio letterario che richiede concentrazione e capacità di entrare in universi letterari elaborati e spesso arcaici, sembra sfuggire ai ritmi della città, in particolare della metropoli urbana moderna. Lucio Sessa, classe 1959, insegnante di filosofia in un un Liceo di provinca (Mercato Sanseverino, Salerno) è un raffinato traduttore dallo spagnolo e dal portoghese. Ha per anni tenuto corsi di traduzione a livello universitario presso l’Istituto Universitario “l’Orientale” di Napoli. Ha lavorato per varie case editrici italiane tra le quali la prestigiosa Adelphi per la quale ha tradotto gli aforismi del filosofo colombiano Nicolás Gómez Dávila. Nel corso di questa intervista abbiamo posto al professor Sessa alcune domande sulla traduzione. Argute e spesso provocatorie le sue risposte.
Come ti sei avvicinato alla traduzione? E perché ti sei concentrato in particolare sulla letteratura ispanoamericana?
«Inizialmente era un modo come un altro per studiare la lingua spagnola, una variante per combattere la noia della grammatica. In seguito, quando sono stato in grado di leggere in originale, se un romanzo mi piaceva, avvertivo come un desiderio di appropriarmene, di smontarlo, di guardarci dentro, e il modo migliore per farlo mi sembrava quello di smantellarlo nella sua lingua e ricrearlo in un’altra. I risultati, all’inizio, non è che fossero esaltanti, ma attraverso il processo di decostruzione arrivavo a conoscere meglio l’oggetto decostruito. Un po’ come i bambini quando rompono un giocattolo. Una forma sublimata di “teppismo”, dunque, oppure un più perverso “distruggere per medicare”. Mi sono concentrato sulla letteratura ispanoamericana nella prima fase della mia attività e per puro caso, anzi per puro diletto: “colpa” di Borges e di Cortázar, soprattutto, ma anche di Felisberto Hernández, Onetti, César Vallejo, Sor Juana Inés de la Cruz e molti altri».
Le traduzioni sono un potente strumento di soft power (al pari di musica e film) per far conoscere la cultura di un Paese. In Italia il Sud America è stato spesso studiato e conosciuto in un’ottica antiamericana fortemente ideologizzata. Forse la letteratura e le traduzioni aiutano a liberarsi di tali “verniciature” ideologiche. A proposito, qual è lo stato attuale della letteratura latinoamericana?
«Certamente negli anni settanta, non solo in Italia ma in tutta Europa, vigeva lo stereotipo dello scrittore latino americano che per avere successo doveva essere in possesso del kit d’ordinanza: esiliato, engagé, guevarista, castrista e naturalmente anti-americano. Il primo denunciare l’insopportabilità di questo cliché fu Vargas Llosa, che vedeva dietro questo atteggiamento non solo una molesta banalità, ma una forma di razzismo paradossale e strisciante. Infatti, solo agli autori “occidentali” veniva riservato il privilegio di essere valutati in base a criteri estetici, mentre quelli latinoamericani, per essere accettati, dovevano sottoporsi a una sorta di autodafé rivoluzionario. Poi l’ultimo Nobel ci ha preso un po’ troppo gusto ed è diventato più realista
del re, per cui, ancor oggi, se deve criticare gli Stati Uniti d’America fa come Fonzie quando è costretto a chiedere scusa: non gli escono le parole.
In tal modo è finito per cadere in una specie di retorica primomondista, uguale e contraria a quella terzomondista da lui efficacemente contrastata. In un modo o nell’altro, si finisce sempre per assomigliare ai propri avversari. Naturalmente oggi le cose non stanno più come negli anni settanta: solo per fare un esempio, ho tradotto un autore colombiano, Nicolás Gómez Dávila, tanto geniale quanto provocatoriamente reazionario, in fondo anche lui anti-americano, ma perché visceralmente anti-liberale e sostenitore dell’ancien régime. Quanto alla seconda domanda, non sono abbastanza aggiornato per dare un giudizio su una letteratura che abbraccia due emisferi».
È possibile insegnare la traduzione nelle aule universitarie? Qual è la tua esperienza al riguardo?
«È molto utile, perché stimola una riflessione contrastiva sulle due lingue in contatto che può essere gravida di frutti. Quanto all’insegnabilità dell’arte della traduzione è un discorso complicato.  Credo che si possano dare suggerimenti, suscitare curiosità, porre problemi e fornire soluzioni, ma sempre provvisorie, spesso plurali; il resto è nelle mani del talento e dell’esperienza, più della seconda che del primo. Usando una metafora calcistica, potremmo dire che il traduttore è un mediano, non un numero 10 dal tocco fine; il suo scopo non è deliziare, è far legna. Sarà invidia, ma diffido sempre un po’ dei traduttori geniali; spesso hanno il tocco fine ma non i polmoni necessari, perché la traduzione è una sfida che si vince ai punti, se hai fiato in corpo.
Devi stare sul pezzo costantemente, finché ce n’è, come canta Ligabue».
Tu hai tradotto sia filosofia che letteratura. Quali le differenze?
«Per tradurre filosofia devi avere familiarità col linguaggio e con le tematiche filosofiche, naturalmente. Può esserci qualche difficoltà concettuale di comprensione, ma la resa non è così complicata, perché il linguaggio scientifico (e quindi filosofico) è una metalingua internazionale, che a Ortega y Gasset piaceva definire pseudo-lingua. Per la letteratura, invece, la resa è molto più complicata, perché bisogna considerare la varietà dei registri linguistici, il ritmo della prosa, le intenzioni del testo e quelle dell’autore, tutte cose controverse e infinitamente interpretabili. E poi: si può tradurre uno stile? Lo stile dell’autore in che misura dipende dalla tradizione linguistica da cui proviene? E come si può ricrearlo all’interno di una tradizione linguistica diversa? Meglio fermarsi qui, sennò si rischia di instillare dubbi sulla traducibilità della letteratura e non mi conviene. Sono italiano: tengo famiglia… come rendere, per esempio, la pregnanza del verbo “tenere” in questa frase di Flaiano diventata proverbiale? Sarebbe diventata ugualmente proverbiale nella formula: “ho famiglia”? Naturalmente no. E allora: si può tradurla efficacemente in inglese? La frase sì, ma come rendere l’allusione ironica dell’autore al secolare sottobosco familistico italico espresso dall’uso meridionale della forma verbale “tengo”?»
Esiste secondo te una correlazione fra la pratica della traduzione e la scrittura? Esercitarsi a tradurre da un’altra lingua potrebbe contribuire a migliorare l’espressione scritta nella propria lingua?
«Sicuramente la pratica della traduzione sollecita una riflessione linguistica approfondita e fa venire a coscienza qualcosa che viene dato per scontato, cioè la propria lingua madre. Se questo porti poi a migliorare l’espressione scritta non saprei. Potrebbe anche fungere da coscienza paralizzante. Di sicuro, traducendo, ci si rende conto dei limiti della lingua in cui si traduce, e dunque della propria lingua. Si scopre, per esempio, quanto l’italiano scritto sia distante dal parlato, e allorché ci si trova a tradurre un autore che usa una lingua colloquiale, ci si rende conto quasi con sgomento di come la nostra lingua sia spesso “ingessata” e poco plastica. A volte si è costretti a cacciar via come insetti molesti una “letterarietà” che si insinua laddove non dovrebbe. In altre situazioni, invece, per esempio in poesia, la lingua italiana è dotata di un’espressività da capogiro».
Tradurre significa entrare in un mondo letterario diverso. Quali beneficî potrebbe trarre la letteratura italiana contemporanea dalle traduzioni di opere straniere?
«Il mercato letterario italiano è fatto più di romanzi tradotti che di romanzi scritti in originale, a differenza di quanto avviene negli Stati Uniti. Non so quale situazione sia migliore per uno scrittore: un autore di lingua inglese ha certamente un’enorme quantità di romanzi da cui può trarre ispirazione relativamente all’uso della lingua. Un narratore italiano certamente non ha questa ricchezza a disposizione. Ora, relativamente alle tematiche, non c’è dubbio che leggere quanto si scrive nel mondo sia una fonte di ispirazione preziosissima, ma quanto allo stile, credo che si possa trarre beneficio solo dalla lettura di testi scritti nella propria lingua madre. Naturalmente è una supposizione buttata lì; non faccio lo scrittore e dunque non saprei. Sono un mediano io, non un numero 10».

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Vincenzo Pascale

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