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September 18, 2011
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September 18, 2011
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FUORI DAL CORO/L’Euro, il cavallo di Troia

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Time: 7 mins read


Non è la prima volta nè (fino a quando continuerà ad esistere) l’ultima che l’Euro, quest’impostura farlocca, aleggia sinistro sulle nostre vite.Non c’è uno solo dei guasti sistemici di cui ormai quotidianamente si discute: la crescita zero, il debito pubblico dei singoli stati, il pericolo inflattivo, la volatilità dei mercati finanziari, con i loro mutevoli jingles propagandistico-apocalittici, (ora è alla moda la differenza di remunerazione fra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi; ma si deve dire spreddbundbittippì, tutto d’un fiato, perché suoni più tecno e autorevole), che non mostri la natura velenosa di questa presenza. Solo che non si deve dire, almeno per ora.

Perché l’Euro è un protegeè di una (soi disant) intellighenzia raffinata e finanziaria, che ne ha armato la nascita e che, in particolare in Italia, si è costituita in lobby parassitaria e cinta di pretoriani in toga. Da ultimo impegnata ad amalgamare una mistura di ipocrisia salmodiante per cui il governo in carica sarebbe una colpa e l’aggressione della c.d. speculazione internazionale l’ennesima, inevitabile, giusta punizione. Goffamente subliminale il parallelo con le colpevoli lussurie private del Presidente del Consiglio, su cui è in procinto di aprirsi il sipario della collezione giudiziaria autunno-inverno.

S’intende che l’affare non è, né può essere solo italiano; tuttavia, nonostante le litanie sull’afflato europeo che, anche per quest’aspetto, dovrebbe accomunarci, gli italiani continuano a soffrire e a preoccuparsi e a pagare in italiano. Come analogamente fanno gli spagnoli, i tedeschi, i francesi e così via. A questa filigrana clericareggiante, consolidatasi lungo tutta la scorsa estate, si è riferito un carico da undici come Paul Krugman, sul New York Times di lunedì’ scorso. Secondo il professore di Princeton e Premio Nobel, al livello dei vertici europei, tanto cari al tramestìo politically correct di casa nostra, “i problemi del continente sono una storia semplice, fatta di eccesso di debito seguito dalla punizione”. E questo atteggiamento starebbe per provocare un “Impeccable Disaster”.

Vale a dire: le ascetiche preoccupazioni inflattive di Trichet, che non riduce il tasso di sconto neanche morto; la paturnie di Eurotower sull’acquisto del debito pubblico spagnolo e italiano, che potrebbero “monetizzare” il debito e, così, innescare del pari inflazione, fino al clamoroso e irresponsabile gesto di Mr. Stark, non solo non mitigano la crisi, ma la rilanciano. Perché impiccano le leve monetaria e fiscale sull’altare della stabilità dei prezzi, cioè sterilizzano ogni possibilità di reazione politica ed economica nazionale per mantenere l’Euro.

E poi, in piena e ormai conclamata depressione, di quale spirale inflattiva parliamo? In ogni caso, un’eventuale inflazione sarebbe un male assai minore rispetto alla crescita zero. E la critica di Krugman s’indurisce proprio quando si affronta la spiegazione corrente della crisi: quella secondo cui il debito pubblico sarebbe frutto di politiche economiche spendaccione, con la conseguente necessità di “fiscal austerity” come ultima chance. Macchè, dice il professore: è vero il contrario. Intanto perché questa spiegazione se vale, vale solo per la Grecia e non per la Spagna né per l’Italia; e poi perché così agendo si impedisce ogni possibilità di crescita.

Ciò che ciascun governo dovrebbe fare senza timidezze e senza risparmio è sostenere il debito pubblico nazionale, e nell’unico modo possibile: creando moneta. Ma, conclude sconsolato l’autorevole columinst, questo Spagna e Italia non possono più fare perché non hanno più la loro moneta: quindi dovrebbe farlo Trichet. Ma Trichet non lo fa. Così la tragedia continua. Si chiedono imperiosamente manovre, manovre bis, manovre ter e chissà cos’altro, perchè i “mercati finanziari” sennò s’incazzano (sembrano Davigo, ricordate? Lui arrestava senza andare troppo per il sottile, sennò “la gente s’incazza”), e così l’Euro e il suo credo protettore, la stabilità dei prezzi, sono salvi; impedendo però che si impieghino gli strumenti essenziali, fiscali e monetari, di ogni politica economica nazionale. Ribadiamolo. Di comprare il proprio debito creando nuova moneta, che sembra troppo bello per essere vero, scrive un eminente studioso e commentatore, non un qualsiasi ciarlatano. Ma non si può perché c’è l’Euro, come, per la stessa ragione, non si può più varare alcuna svalutazione. Quella la possono impiegare i cinesi contro gli States. Noi no. L’Euro ci ha salvato dall’impoverimento strisciante che provoca l’inflazione palese, dicono. Quello che non dicono è che fino ad oggi ci ha impoverito assai più, e in misura che ciascuno può testimoniare, con l’inflazione occulta sostenuta e mascherata dalla Soglia Irrevocabile di Conversione: 1936, 27. Né dicono che sta moltiplicando le nostre ferite impedendo le uniche, sopra autorevolmente menzionate, cure possibili. O, infine, che è stato il Cavallo di Troia con cui sono state progressivamente esautorate le democrazia europee e, correlativamente, instaurate autocrazie sottratte a qualsiasi forma di valutazione e di consenso consapevole e diffuso. Tutto questo perché? Tentiamo, all’ingrosso, una sintesi. Venuto meno lo spauracchio del comunismo, quanto meno di quello in forme sovietiche, dall’inizio degli anni ‘90 in poi le democrazie occidentali hanno patito, diciamo così, un calo di tensione culturale e politica ed hanno gradatamente ma (fin qui) inarrestabilmente permesso che, al loro interno, l’asse del potere si spostasse dalla pur imperfetta e parziale dimensione delle istituzioni democratiche, leggibili e comprensibili da chiunque, a luoghi non elettivi e sempre più protetti da una coltre di impenetrabile mistero tecnicistico. Anche considerando il loro andamento ondivago, e facendo la tara alla semplificazione diacronica, resta però che per tutti gli anni ’50 (ricostruzione), ’60 (crescita e movimenti per diritti civili) ’70 (turbolenze e crisi) ’80 (distensione ed ulteriore crescita), non si è mai percepita un’apatia ed una stagnazione così pervicaci come si sono andate imponendo negli ultimi quindici anni.

Le società sottostanti vi hanno perso, ogni giorno di più, la loro capacità manifatturiera e questa palude ha inghiottito i luoghi della reale produzione, con tutti i loro inevitabili ma autentici conflitti; abbiamo preso ad inneggiare a servizi, a beni immateriali, al terziario. Così la vita stessa degli individui smarriva i suoi riferimenti e i suoi contenuti materiali e, perciò, più diffusamente comprensibili. Ridottesi industria e commerci non elettronici, esplodeva la rivoluzione digitale, che creava la rete mondiale su cui la finanza liberata si moltiplicava e cresceva. Aveva cominciato Reagan a liberarla, ma la sua deregulation si sarebbe rivelata robetta al confronto di quello che, nella materia finanziaria, avrebbero fatto Clinton e poi anche George W. Bush. Vennero gli anni ’90 e il WTO, la vera pietra miliare dell’incipiente nuovo secolo-millennio. La liberalizzazione degli scambi, col sostrato tecnologico e finanziario libero di espandersi e di penetrare in ogni ganglio della vita, di quella associata come di quella individuale, cambia radicalmente la natura delle istituzioni democratiche e dei luoghi della loro espressione. Istituzioni politiche, istituzioni economiche; parlamenti, fabbriche, negozi. La fioritura di questo fenomeno epocale è suggellata dal crescente strapotere di Wall Street, Oltreatlantico, e dall’avvento dell’Euro e delle istituzioni relative, in Europa. Nella dimensione quotidiana, dal trionfo di carte di credito, centri commerciali e telecomunicazioni che vaporano piazze, strade e i connessi ritmi spazio-temporali; e vaporano le banconote, le “carte”, con la loro attitudine a tradurre con immediatezza elementare il valore del lavoro e delle cose.

La successione storica con il mondo del dopoguerra, com’è noto, assume la forma dello iato, cioè della brusca rottura. E come ogni rottura c’è chi rompe e c’è chi è rotto. Chi fa il lavoro sporco e chi ne raccoglie i frutti. In Italia, mentre a Washington si lanciava la finanza pervasiva, si preparava la Grande Liberalizzazione del WTO e lo scatenamento della Cina, e nella Silicon Valley si rendeva evanescente l’idea di spazio e di tempo risalente ad Omero, a Roma, la Prima Repubblica veniva passata per le armi dalla magistratura che, da lì in poi, sarebbe divenuta la sola istituzione del vecchio regime non solo rimasta in piedi, ma pure neo-depositaria di un potere di veto su qualsiasi vicenda o scelta delle istituzioni formalmente sovrane. Svuotata del suo più vistoso contenuto democratico (partiti di massa), l’Italia venne sul nuovo proscenio senza nessuno che ne rappresentasse e ne custodisse identità e forza nazionale.

Le Partecipazione Statali, tesoro di tutti, furono prese d’assalto, proprio, e non a caso, mentre si preparava il varo dell’Euro. La nostra adesione alla moneta unica fu presentata come sola ancora di salvezza da un imminente disastro economico nazionale. Lo stesso di cui oggi si discute. Entrammo nel nuovo secolo disarmati e impauriti. Londra picchiò duro, come fa da quasi un secolo; ci fu la speculazione sulla lira insieme a quella sulla sterlina. Pareva un storia di comune sofferenza, invece, loro sono rimasti con il Pound e, lungo i dieci anni successivi, avrebbero riguadagnato prestigio e potere mondiale, soprattutto finanziario. Noi, perdendo la lira, debitamente dileggiata come l’intera classe politica di governo, perdemmo rango internazionale e forza. Con la lira, e non con l’Euro, eravamo diventati quinta potenza economica mondiale; con la vituperata Prima Repubblica e i suoi partiti democratici avevamo occupato un posto di primaria importanza fra gli alleati della superpotenza americana.

A Londra tutto questo andava di traverso. E ritenne di assumere un ruolo tutorio verso l’Italia, priva di potere fiscale (soggiogato dall’inganno dei parametri di convergenza), monetario (immolato alla BCE) e di autonoma ed autentica classe politica. Berlusconi è solo stato un tentativo germinato dal suo ventre più profondo e più autenticamente nazionale. Ma improvvisato e fuori mestiere. Perciò, nella sfaticante temperie di una guerra di posizione, ormai ulteriormente degradata fino alle forme cannibalesche della guerriglia, destinato a soccombere.

Questo capolavoro storico-politico dobbiamo a Ciampi, a Prodi, a Scalfaro e a qualche altro padre della Patria, come l’Economist e La Repubblica, con la sinistra e manutengoli vari a fare da beoti portatori d’acqua. Gli stessi (o le loro seconde e terze file) che dovrebbero tornare a salvarci e a restituirci un futuro. Amen.

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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