A sinistra il deputato del Pdl Alfonso Papa
Può essere un caso che, nello stesso giorno, Camera e Senato siano stati chiamati a decidere su una richiesta di arresto riguardante un loro membro. Può essere un caso che, la mattina di quello stesso giorno, le prime pagine web dei maggiori quotidiani abbiano titolato con la notizia di un’indagine preliminare a carico di Filippo Penati, autorevole esponente del PD. Può essere un caso che la notizia su quest’indagine segua di due settimane quella sull’ENAC, riguardante due altri esponenti del PD, Franco Pronzato e Vincenzo Morichini, riconducibili rispettivamente, a Bersani e a D’Alema. Può essere un caso che la settimana scorsa la lobby editorial-finanziaria più scopertamente partigiana verso la magistratura abbia ottenuto una sentenza che la gratifica di oltre mille miliardi delle vecchie lire; e proprio in danno del gruppo facente capo al Presidente del Consiglio con cui guerreggia da quasi trent’anni. Può essere un caso che la Camera abbia poi deciso di mandare in galera prima del processo l’esponente del PDL e che il Senato abbia risparmiato questa preventiva mutilazione all’esponente del PD. Può essere un caso. Ma potrebbe anche non esserlo. Anzi, secondo Jorge Luis Borges “Non esiste il caso: ciò che chiamiamo caso è la nostra ignoranza della complessa meccanica della causalità”. Per trascorrere da ciò che appare casuale a ciò che potrebbe rivelarsi causale il passo a volte è breve.
Per esempio, basta considerare i principali protagonisti di quelle supposte casualità, cioè i magistrati, nella loro reale dimensione di vita: come uomini e donne reali, e non come istituzioni metafisiche. Che hanno una casa, mogli, mariti, figli, leggono, parlano, vanno in macchina, ascoltano la radio, guardano la televisione (comparendovi, a volte), mangiano, dormono, nutrono passioni e sentimenti, hanno avuto un’adolescenza, vivono un’età adulta, aspirano (o temono) la maturità, si volgono su memorie, si slanciano su speranze, si piegano su delusioni, si fermano su frustrazioni, intessendosi, dunque, di tutta la materialità umana che ciascuno conosce e sperimenta ad ogni istante. Così, quando si sente o si legge che una Procura della Repubblica indaga, perquisisce, intercetta o che un G.i.p. dispone una misura cautelare, o che un Tribunale condanna o assolve e così via, non bisognerebbe dimenticare l’uomo o la donna sotto la toga, che magari richiama quel nostro compagno di classe un pò così e così, mai sembrato portatore di conoscenze o intelligenze superiori, che oggi (ma chi l’avrebbe detto!) dispone di un potere immenso, tale da poter rivolgere e sconvolgere la vita del prossimo dalla sera alla mattina. E, se non lo dimentichiamo, dovremmo pure avere il coraggio di rimanere, per qualche istante almeno, in compagnia di tutte le riflessioni, più o meno inquietanti, che una simile constatazione può indurre. E quando leggiamo della “magistratura” come Ordine dello Stato, non dovremmo mai dimenticare che dietro questa astrazione si possono scorgere ancora uomini e donne, integrati in una struttura di lavoro, ampia e articolata per funzioni e aree territoriali; una struttura che vive consapevolmente questa dimensione, alimentando, nei convegni, nei corsi di formazione o aggiornamento professionale, nelle giornaliere occasioni di incontro all’interno dello stesso edificio, dove magari si passano decenni, un circuito di contatti, di confronti, di amicizie; da cui sorge un afflato identitario, che, attraverso un reticolo di informazioni reciproche, continuamente si rinnova e si consolida.
Di questa struttura, di quei circuiti, di quel reticolo, l’ANM è contenitore formale, con le sue diramazioni periferiche; dentro vi sono, di nuovo e immancabilmente, uomini e donne, mediamente istruiti, abili nel maneggio di concetti e funzioni legali; concetti e funzioni che avrebbero dovuto essere solo espressione di una neutralità equidistante: da conflitti, da culture, da passioni e invece, da un certo momento in poi, sono diventati arnesi di un proprio mestiere con cui, sapientemente impiegati, la magistratura si è immersa nel vortice delle correnti e delle fazioni, sostituendo la decisione con l’azione. Sul proscenio del potere l’insieme di questi uomini e donne, si presenta così con l’ordito di tali arnesi: norme, codici, corpi investigativi, strutture carcerarie, potere di accertamento e di comando giurisdizionale. Ordito ambiguo perché, sopra la toga, è funzione costituzionale, sotto, mestiere, negoziato, amorfo e incontrollabile. Su quel proscenio ha trattato. Uno spazio a cui non è mai stata estranea, lungo tutta la storia repubblicana, e in cui ha costantemente interloquito con il potere politico, ottenendo negli anni uno status gentilizio: economico-retributivo innanzitutto, legato alle indennità senatoriali, incomparabile con quello di ogni altra struttura di funzionari o anche dirigenti statali. Status fortificato da un sistema di controllo e di valutazione assolutamente autoreferenziale e impreziosito da una progressione di carriera che, con l’automatismo burocratico dell’anzianità di servizio, pone al riparo questi uomini e donne da ogni rischio di portafoglio. A partire dal 1992, lo ricordiamo tutti, questo già robusto corredo di potere e di munificenze, si è fatto altro: arresto dopo arresto, fuga di notizie dopo fuga di notizie, intercettazione dopo intercettazione, avviso di garanzia dopo avviso di garanzia, Mario Chiesa dopo Mario Chiesa, Citaristi dopo Citaristi, Cusani dopo Cusani, Andreotti dopo Craxi, Musotto dopo Mannino, Ciancimino dopo Ciancimino, si è fatto superpotere e superpresenza, cioè deus ex machina. Che, come ogni superpotere, come ogni deus ex machina ha bisogno di una mitologia nella quale specchiarsi e con cui esibirsi. Non importa se simili mitologie grondano della peggiore ipocrisia. La considerazione, la stima, l’opinione corrente sulla magistratura, devono infatti molta della loro sostanza all’immonda manipolazione di una memoria nazionale, di una ferita profonda: Capaci e Via D’Amelio. Nessuno, come Falcone e Borsellino, furono in vita osteggiati, isolati, incompresi, dileggiati dai propri colleghi, sia nei pettegolezzi di corridoio, mestamente evocati in Cose di Cosa Nostra, sia nelle sedi ufficiali: basti ricordare la delibera con cui il CSM, l’organo di autogoverno, il baluardo dell’indipendenza, la culla della legalità, decise sulla sua candidatura alla direzione dell’Ufficio Istruzione. O al germoglio di insinuazioni culminato nella vicenda del c.d. corvo; o alle maligne rimasticature sputacchiate sull’attentato dell’Addaura; o alle isteriche e criminali invettive sulla sua “andata a Roma”, Ministro Martelli, VII Governo Andreotti. Eppure, grazie ad un’accorta manipolazione della memoria, di cui il Gruppo Espresso-Repubblica è stato interessato regista, è sembrato che ogni magistrato, ogni indagine, ogni arresto, ricevessero una perenne e indiscutibile legittimazione da quei due augusti nomi, che tutti fossero Falcone, tutti Borsellino; anche quando avrebbero disegnato terzi e quarti livelli, da quelle inarrivabili esperienze professionali sempre guardati con estrema cautela, se non espressamente negati. E, con Mani Pulite, è poi sembrato che tutti fossero nati e cresciuti fuori da quel proscenio di potere e di diuturna trattativa: anche quando avevano frequentato per anni gli stessi che poi avrebbero arrestato; anche quando la nomina agli uffici direttivi aveva celebrato una liturgia palatina devota a rispettare equilibri politici interni, fra le correnti, ed equilibri politici esterni, con il sistema dei partiti: Roma a me, Milano a te, Bologna su, Napoli giù. Come se tutti i magistrati, tutte le indagini, vivessero di quel sangue, meritassero gli stessi elogi, impersonassero la stessa idea di giustizia. Nell’attuale tragedia culturale e politico-istituzionale italiana, questo saccheggio della memoria, questa cinica e feroce messinscena è la piaga più infetta, la più pericolosa, la più oltraggiosa.
Ora questo grumo umano, troppo umano, suggerirebbe Nietzsche, da Roma, da Monza, da Napoli, simultaneamente torna ad agire, a fare della sua neutralità l’arnese di un sordo lavorìo: prima affonda nella scivolosa materia delle “relazioni influenti”, mezze millanterie e mezze verità, che dal caso Enac annunciano assoluzione lontano un miglio, ma intanto si arresta; considerata la scarsa eco suscitata, da un altro sito ripesca fatti del 2001 (Penati) e li ripone all’attenzione di un possibile partito di governo in un giorno di intenso significato simbolico; quindi amalgama l’ordinario arrivismo di un pubblico ministero (Papa) con il tramestio proveniente dal sottobosco delle “notizie riservate”, offrendone il mercimonio alla pubblica lapidazione. Come se quello stesso sottobosco non costituisse l’infernale linfa su cui quegli uomini e quelle donne hanno edificato, ogni giorno, ogni istante, anche mentre leggiamo queste poche righe, il loro status, il loro superpotere.
No, forse non è un caso; né è un caso che si osservi il precipizio in cui le intercettazioni illegali hanno ruzzolato Rupert Murdoch senza che il corrispondente contrabbando di merce giudiziaria, a cui si vorrebbe ci abituassimo, produca imbarazzo nei media nostrani, più o meno illuminati. Il Presidente Napolitano è tornato a far sentire le sue preoccupazioni sul punto. Vedremo.
E non è un caso che Maroni abbia deciso, come un imperatore, le sorti dell’On. Papa e del Senatore Tedesco: pollice verso per il primo, retto per il secondo. Perché è lo stesso che, pure quella volta Ministro dell’Interno, di fronte al Decreto-Legge Biondi, quello del pronunciamiento televisivo del Pool Mani Pulite, del “popolo dei fax” e della vasectomia parlamentare ordita da Scalfaro, si fece bimbo offeso, affermando impavido di non saperne nulla, di essere stato raggirato dai suoi colleghi ministri con un giochino di bozze e di originali. Oggi guida la Lega ad esporre di nuovo il cappio in Parlamento, convinto di fare grande politica, di offrire, con Papa, la sua autonomia da Berlusconi e così, di potersi affacciare sul noto proscenio purgato e credibile. Né è un caso che il PD abbia maramaldescamente giocato con le manette. Offrendo Papa deve aver pensato di poter salvare questo suo “cattivo” e di potersi assicurare un salvacondotto per gli altri, oggetto di così clamorose iniziative. Inavvertitamente, ma non casualmente, le stesse marionette di allora celebrano quel colpo di mano, rinnovato oggi senza suscitare grandi fremiti, per la verità. Da allora si è originata l’odierna repubblica giudiziaria e lapidatrice, né parlamentare né democratica.
Genuflessi e ruffiani distillano il fiele dell’illusione con il filtro della mediocrità.