Ennesimo esame di maturità, oggi, per la democrazia tailandese, in cerca di stabilizzazione da quando, nel 1932, il paese si liberò della monarchia assoluta. Si torna per la terza volta in sei anni a decidere a chi spetti governare e la ripetizione del voto non è certo un buon segnale. A garantire stabilità e ordine sta il ruolo pacificatore di un monarca coraggioso e amato benché vecchio e malandato ma, come ha mostrato poco più di un anno fa la rivolta delle giacchette rosse nel pieno centro della capitale Bangkok, restano alte le tensioni chiamate a sciogliersi nel voto odierno.
La competizione riporterà probabilmente al potere l’ex primo ministro, il plurimiliardario Thaksin Shinawatra, esiliato nel 2006 dalle forze armate, seppure attraverso la minore e più fotogenica delle sorelle, la quarantatreenne Yingluck Shinawatra, leader del Pheu Thai Party, che riscuote consenso soprattutto tra le immense campagne del paese. I militari hanno fatto sapere che accetteranno il verdetto delle urne, quindi la questione del dopo elezioni si sposta soprattutto sul fronte dell’economia e del sociale, pur non ignorando che, nel caso di vittoria del Pheu Thai, potrebbe essere posta dal governo la questione istituzionale, centrata sulle attribuzioni del triangolo tradizionale del potere nazionale: monarchia, forze armate, burocrazia centrale. Non è casuale che il paese abbia sofferto, dalla rimozione della dittatura di Thanom Kittikachorn nel 1973, numerosi colpi di stato, segni di un malessere irrisolto che non ha ancora consentito stabilità e pienezza ad uno dei più lunghi tentativi di democrazia del sud est asiatico.
E’ sperabile che la Tailandia non voglia gettare al vento la buona congiuntura economica che sta registrando da anni. I giovani che escono da università e scuole tecniche, al contrario di quanto accade negli Stati Uniti e in molti paesi europei Italia su tutti, trovano lavoro, e la presenza di più di tre milioni di immigrati occupati in lavori “sporchi”, lo testimonia. Ciò detto, è evidente che occorra diminuire le eccessive distanze tra ceti e classi. Non regge la motivazione che i salari debbano restare bassi, perché altrimenti ne soffre la capacità competitiva del paese nei confronti dei vicini. E’ sperabile che la disponibilità mostrata da tutti i partiti, durante la campagna elettorale, ad accrescere i salari, sia mantenuta dal vincitore delle elezioni, peraltro senza rovinare il buon lavoro fatto, per il rilancio dell’economia, dall’uscente primo ministro Abhisit Vejjajiva, del partito Democratico. Di fronte ai ventilati rincari delle retribuzioni (25% secondo il partito Democratico, 40% secondo Pheu Thai), bisognerà far crescere qualità e creatività, e diminuire altri costi aziendali, al fine di non penalizzare le esportazioni. E comunque si garantirà l’incremento della curva del consumo interno, sempre che non si vada ad una spirale inflativa dovuta alla maggiore disponibilità agli acquisti dei salariati e stipendiati, i cui danni sono già stati sperimentati in passato. Accrescere il denaro delle famiglie è anche condizione per maggiore giustizia sociale: in Tailandia i consumi contano solo per il 54% dell’economia, contro il 70% nelle Filippine e più del 60% in Indonesia.
Se le forze armate manterranno l’impegno a non intervenire nel gioco della politica, il prossimo governo potrà avvalersi dell’appoggio degli elettori per varare le necessarie riforme. Ai lavoratori forse sarà garantito il salario minimo, e l’assistenza sanitaria e sociale. Agli imprenditori che il gioco della concorrenza e della competizione diventerà più aperto, con meno protezionismi e bardature burocratiche. I concorrenti vicini, che mantengono salari bassi e regimi non democratici, come Vietnam e Myammar, potranno forse guadagnare piccole fette di mercato, ma solo nei prodotti di fascia periferica, mentre i settori di gamma alta non avranno nulla da temere.