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June 19, 2011
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June 19, 2011
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L’OPINIONE/Politica & Mafia: Giustizia per caso

Giulio AmbrosettibyGiulio Ambrosetti
Time: 8 mins read

 A sinistra il Presidente della Regione Sicilia e leader del Movimento per l’Autonomia Raffaele Lombardo

La giustizia in Italia? Per i comuni cittadini si applica, per gli ‘amici’ si interpreta. Soprattutto se certe inchieste vanno in scena nell’estremo lembo del Belpaese: la Sicilia. Soprattutto se l’argomento in questione si riassume in una parola: mafia.
"Il fine giustifica i mezzi": così, nel Paese di Dante, i cattivi esegeti del pensiero di Nicolò Machiavelli riassumono l’idea centrale dell’illustre fiorentino diventato "scienziato dell’azione umana, insegnando quel che gli uomini fanno e non quel che dovrebbero fare". Interpretazione sbagliata, perché questo benedetto "fine che giustifica i mezzi" non sta proprio nelle corde del grande pensatore fiorentino. Per rendersene conto, basta leggere le sue opere senza interessate intermediazioni, evitando di ripetere a pappagallo le frasi fatte – quasi luoghi comuni – riportate da certi discutibili (quanto ideologici) testi di storia della letteratura italiana.
Ma se, da un lato, è giusto liberare Machiavelli dai suoi cattivi esegeti, non altrettanto si può fare per certi ‘sacerdoti’ della giustizia italiana che, applicando alla lettera il solito motto – e cioè il solito "fine che giustifica i mezzi" – fanno quello che vogliono, ‘macinando’ la giustizia e chi continua a crederci malgrado tutto. La dimostrazione che la celebre frase – o meglio, l’interpretazione sbagliata di tale frase – ‘deve’ essere ascritta a Machiavelli non tanto per illustrare il pensiero del grande fiorentino, ma per giustificare i comportanti, spesso abnormi e comunque discutibili, della brutta Italia di oggi e, forse, di sempre.
La storia che adesso illustreremo è andata in scena qualche settimana fa a Catania. Ed esattamente negli uffici della Procura della Repubblica. Per quattro pubblici ministeri di punta della Procura etnea, Iole Boscarino, Antonino Fanara, Agata Santonocito e Giuseppe Gennaro sussisterebbero "elementi idonei" a sostenere in giudizio l’accusa di concorso in associazione mafiosa a carico dell’attuale presidente della Regione Raffaele Lombardo e di suo fratello Angelo, parlamentare nazionale del Movimento per l’autonomia, il partito fondato dallo stesso Lombardo.
Negli uffici della Procura di Catania il procuratore capo, Enzo D’Agata, è andato in pensione a fine febbraio scorso, evitando di pronunciarsi su questa vicenda. A distanza di tre mesi e mezzo il Consiglio superiore della magistratura (Csm) non ha trovato il tempo per nominare il nuovo capo della Procura. Come mai?
I magistrati lamentano spesso di essere trascurati. Di lavorare con grande difficoltà per mancanza di risorse finanziarie e umane. In questo caso, però, la responsabilità della mancata nomina del nuovo capo della Procura è del Csm. Perché l’organo supremo della magistratura temporeggia? Fino a che punto è giustificabile, in un momento delicatissimo, lasciare un ufficio che indaga sui rapporti tra mafia e politica nelle mani di un procuratore capo facente funzioni?
Il problema è politico. I quattro pubblici ministeri che conducono da anni l’inchiesta "Iblis" hanno fatto sapere che, per loro, il presidente Lombardo e suo fratello Angelo vanno rinviati a giudizio assieme ad altri 150 soggetti. Reato ipotizzato: mafia. La notizia finisce pure sui giornali. A quanto sembra, il procuratore capo facente funzioni, Michelangelo Patanè, non ne vuole sapere di firmare il rinvio a giudizio per il presidente Lombardo e per suo fratello.
Patané fa di più. Anzi, si rende protagonista di una mossa che non ha eguali nella storia giudiziaria della Repubblica italiana: pur dicendo di "apprezzare" l’operato dei quattro pubblici ministeri della sua Procura, avoca a sé l’inchiesta su Lombardo e suo fratello Angelo. E ne stralcia le posizioni.
Poi comincia una campagna mediatica. Con lo stesso Patanè che ci fa omaggio della sua dottrina giuridica. Il volto del procuratore facente funzioni della Procura di Catania campeggia sulle pagine dei giornali. Apprendiamo, così, che lui la decisione di stralciare le posizioni di Lombardo e del fratellino l’ha adottata sulla scorta della sentenza della Cassazione che ha assolto l’ex ministro, Calogero Mannino, dall’accusa di mafia. In soldoni, i giudici della Cassazione dicono che, nel caso del reato di concorso esterno, la condanna per mafia va comminata solo se viene provato che l’operato (per esempio, di un politico) ha prodotto reali e quantificabili benefici alla stessa mafia.    
I giudici della Cassazione sono arrivati a questa conclusione dopo un processo sofferto che è durato 13 anni. E hanno illustrato le motivazioni in una sentenza. Il dottore Patanè, invece, in merito alle posizioni di Lombardo e di suo fratello, è arrivato alle stesse conclusioni della Cassazione senza nemmeno fare un processo. Eh già, perché i giornali – non smentiti! – titolano pure che per il presidente Lombardo e per suo fratello si va verso l’archiviazione.
Domanda: ma i magistrati – soprattutto i magistrati che occupano ruoli delicatissimi, essendo chiamati a decidere sulla libertà dei cittadini – non dovrebbero far parlare le carte, piuttosto che abbandonarsi a interviste e ad altre esternazioni più o meno mediatiche? E il Csm non trova nulla di strano nel fatto che un procuratore capo facente funzione abbia inibito la volontà di quattro sostituti procuratori che indagano da anni sui rapporti tra mafia e politica? Che cosa è, oggi, la giustizia in Italia? Quali vie segue quando di mezzo c’è la mafia?
Ovviamente, il discorso non riguarda tutta la magistratura penale. Ma solo alcuni uffici. E, altrettanto ovviamente, va detto che se si è arrivati a questo punto, se ormai le indagini su mafia e politica non seguono una linea comune, se, in parole semplici, come già accennato, la giustizia si "applica" o si "interpreta" a seconda dell’esigenza del momento (e a seconda dei personaggi coinvolti), ebbene, ciò dovuto anche al clima instaurato da Silvio Berlusconi, un personaggio piano di conflitti d’interesse che ha trasformato in un’arena lo scontro tra il gruppo di potere che personifica e la magistratura.
Non sappiamo se tutte le indagini a suo carico siano, come lo stesso Berlusconi afferma, frutto di una persecuzione ai suoi danni: ma sappiamo che la sua presenza, il suo linguaggio sempre sopra il rigo e le sue continue offese a tutta la magistratura finiscono con l’impedire un sereno dibattuto sulla giustizia e, soprattutto, fanno passare in secondo piano le cose incredibili che, per esempio, sono andate in scena nelle ultime settimana a Catania.
Tornando alla Procura etnea, qualcuno, esagerando toni e linguaggio (del resto, Berlusconi non è forse capo del governo?), potrebbe affermare, semplificando, che si sta cercando di "salvare il culo" al presidente Lombardo e a suo fratello. Naturalmente, tale interpretazione è sbagliata. E’ solo un caso, infatti, che Lombardo, eletto presidente della Regione siciliana nel centrodestra, abbia sbattuto fuori dal governo il centrodestra per imbarcare in giunta il centrosinistra, cioè il Pd, partito che ha perso le elezioni nel 2008. E’ solo un caso, ovviamente, che a sponsorizzare il governo Lombardo sia il Pd e, in particolare, il parlamentare nazionale di questo partito, Giuseppe Lumia, noto "professionista dell’antimafia" di scuola comunista.
Del resto, in Sicilia, a parte alcuni casi, la giustizia non ha mai praticato sconti per comitive antimafiose alla sinistra di origini comuniste. Mai! Fu solo un caso, infatti, se, alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, il governo regionale retto da Silvio Milazzo, appoggiato dal Pci, assegnò le esattorie più lucrose ai già allora chiacchierati cugini di Salemi, Nino e Ignazio Salvo, dandogli la possibilità di diventare gli uomini più potenti della Sicilia. E fu sempre un caso se, nei primi anni ’70, il mafioso Giuseppe Di Cristina venne assunto da una società regionale grazie ai buoni uffici di un sindacalista di sinistra. 
Fu sempre un caso se, sempre negli anni ’70, la Sicilia anticiperà in modo ‘originale’ i governi di "solidarietà nazionale", dando vita ad accordi tra Dc e Pci che culminavano, anche, nella spartizione di risorse finanziarie, a cominciare dagli appalti pubblici. E fu sempre in caso se, nei primi anni ’80, l’allora segretario regionale del Pci siciliano, Pio La Torre, si scagliava contro quelli che definiva "i grandi corruttori" che stavano anche dentro al suo partito.
Si riferiva, La Torre, a una tangente di 300 milioni di vecchie lire (la storia è quella del mai realizzato palazzo dei congressi di Palermo, opera stranamente riesumata dall’attuale giunta Lombardo appoggiata, guarda caso, dagli eredi del Pci siciliano), una sorta di viatico che avrebbe consentito ai ‘mitici’ Cavalieri del lavoro di Catania di entrare a Palermo. Fu sempre un caso se, tra i "grandi corruttori", c’erano anche i "compagni" che trafficavano con i centri Aima, ovvero le truffe miliardarie ai danni dell’Europa unita che allora si chiamava Cee. La Torre fu ammazzato e, questa volta non per caso, la sua morte venne catalogata come il prodotto delle sue lotte contro i missili americani a Comiso, eliminando con eleganza, sia la tangente di 300 milioni, sia i miliardi truffati alla Cee.
Ed è ancora un caso se, dopo la chiusura del giornale L’Ora – testata gloriosa della sinistra siciliana – chiusura che risale al 1992, si scoprono ‘stranezze’ nei bilanci del quotidiano. Agli atti c’è una denuncia (firmata da chi scrive e da un collega). L’inchiesta penale culminerà nella richiesta di rinvio a giudizio per 11 persone. Tra i coinvolti, tanti dirigenti dell’ex Pci siciliano. Una storia inquietante che accendeva i riflettori su come i soldi pubblici per sostenere l’editoria, gestiti dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, finivano nelle ‘casse’ dei partiti. La richiesta di rinvio a giudizio resterà inspiegabilmente sepolta per lunghi anni negli uffici del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo. Fino a che il reato non si prescriverà. In questa vicenda gli imputati ‘mancati’ hanno anticipato di un decennio Berlusconi, difendendosi, di fatto, dal processo e non nel processo, complici i ‘tempi lunghi’ della giustizia italiana.     
Naturalmente è un altro caso se, nei primi anni ’90, a Corleone, si scopre che la giunta comunale ‘progressista’ (allora le giunte di sinistra si chiamavano così) faceva gestire appalti a un’azienda riconducibile al nipote di Bernardo Provenzano, il capo della mafia siciliana allora libero. Oltre un miliardo di vecchie lire che l’amministrazione di ‘sinistra’ elargiva a un’azienda riconducibile alla mafia. Ovviamente, è sempre un caso se questa vicenda non è finita sui tavoli della magistratura.
Tra le tante casualità, una cosa, invece, non è casuale: e cioè che la vicenda Lombardo si inserisce, a pieno titolo, nella ‘edificante’ storia di un ‘consolidato’ rapporto tra una certa sinistra siciliana e una certa magistratura. Con buona pace di chi ancora crede alla frase che campeggia nelle aule dei tribunali italiani: "La giustizia è uguale per tutti"…
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Giulio Ambrosetti

Giulio Ambrosetti

Sono nato a Palermo, ma mi considero agrigentino. Mio nonno paterno, che adoravo, era nato ad Agrigento. Ho vissuto a Sciacca, la cittadina dei miei genitori. Ho cominciato a scrivere nei giornali nel 1978. Faccio il cronista. Scrivo tutto quello che vedo, che capisco, o m’illudo di capire. Sono cresciuto al quotidiano L’Ora di Palermo, dove sono rimasto fino alla chiusura. L’Ora mi ha lasciato nell’anima il gusto per la libertà che mal si concilia con la Sicilia. Ho scritto per anni dalla Sicilia per America Oggi e adesso per La Voce di New York in totale libertà.

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