Letizia Moratti e Giuliano Pisapia si stringono la mano
Concluso il primo turno delle votazioni, Pier Luigi Bersani è andato ripetendo che in queste elezioni, a Napoli e a Milano, il suo partito è stato al servizio del riscatto democratico italiano, o qualcosa del genere. E così ha detto due cose.
La prima è più semplice: anche per il Partito Democratico, cioè, quelle specifiche elezioni possiedono rango nazionale. Il riconoscimento è stato tardivo, ma sempre utile. E poco importa se sia giunto solo dopo il prospettarsi di una vittoria. La tattica integra legittimamente la battaglia politica; del resto Berlusconi, pensando di vincere, quanto meno a Milano, vi ha copiosamente dispiegato tempo ed energie. E bene avrebbe fatto Bersani ad accantonare anche l’argomento che fin qui pare abbia sostenuto un pavido minimalismo; secondo cui le elezioni sarebbero state amministrative, ma proprio Berlusconi ne avrebbe trasformato la natura, imprimendovi un c.d. “valore politico”. Berlusconi non vi ha impresso un bel niente. E’ dal 1993 che le elezioni dei sindaci hanno assunto dimensione politica nazionale; il sistema elettorale degli enti locali, allora rinnovato, nelle grandi città addensa sui candidati voti in centinaia di migliaia: ne è venuta una forza intrinseca del consenso mai vista prima. Per questo, sin da quell’anno le elezioni comunali hanno segnato sia carriere politiche di livello nazionale, sia lo svolgimento della stessa vita politica nazionale. Perciò Berlusconi non ha inventato né ha manomesso nulla. Semmai, oltre al già citato accorgimento tattico, questo iniziale riduzionismo di Bersani dice più di quanto vorrebbe. E veniamo così alla seconda delle due cose. La più complicata e rilevante. Per intenderla, occorre considerare che né Pisapia, né De Magistris sono candidati del Partito Democratico; il porsi “al servizio” e, che so, non “al comando,” del riscatto democratico, denota chiaramente la consapevolezza, in Bersani, di avere occupato le retrovie nei due maggiori confronti di queste elezioni. Proprio questa è la seconda implicazione che si può trarre dalle sue parole; a Milano come a Napoli esse svelano un fatto politico imponente, a prescindere da chi vincerà. Che, per il Partito Democratico, rimarrà comunque il fatto politico centrale. L’eventuale vittoria dei candidati di sinistra ne accrescerebbe il valore problematico. Infatti, sia Pisapia che De Magistris sono carichi di stratificazioni, di simbologie, di contenuti culturali e sociali così intimamente connessi ai loro profili personali, da farne emblemi perfetti della sciagurata minorità politico-culturale in cui versa attualmente la sinistra italiana.
De Magistris sgorga, limpidamente reazionario, dal bollore questurino e inconcludente presente ab imis in un certo tratto dell’identità italiana e, da circa tredici anni, consolidatosi nella posticcia veste programmatica dell’Italia dei Valori. Nota la radice, come gli innesti. Da “Mani Pulite” in poi, si è formato una sorta di mercato di nicchia, in cui becerume qualunquistico e frustrazione trovano interessato ricetto. Celata dallo sfuggente paradigma della c.d. legalità (summum ius, summa iniuria ammoniva Cicerone), a dire di costoro “valore” primo di quest’area socio-politico-umorale, si agita in effetti l’eterna tragicommedia di ogni masaniellismo, non meno vana che pericolosa. I suoi portabandiera provengono da quelli che un tempo il vecchio P.C.I. chiamava, con una buona misura di consapevole e comprensibile sospetto, “I Corpi separati dello Stato”: a significare la tolleranza, necessaria ma sofferta, di un grumo di interessi, di procedure, di organizzazioni, distinte dal cuore pulsante delle dinamiche democratiche. Questo dato, da solo, tradisce, con impudica chiarezza, la confusione equivoca e involuta che presiede alla stabile alleanza fra il Partito Democratico e simili derivazioni. E’ uno dei tanti frutti marci che vengono alla Sinistra italiana dalla finzione schizzofrenica e furtiva con cui è stata condotta la fecondazione del post-comunismo italiano. Dovevano urgentemente appropriarsi delle matrici riformiste valorizzate da Craxi, e invece hanno preferito perdutamente abbandonarsi alle oligarchie lobbistiche di Repubblica & Son.: violentando e, forse, definitivamente disperdendo un prezioso patrimonio di conoscenze, di analisi, di sensibilità nutrite ed elaborate lungo mezzo secolo di difficile, ma autentica, presenza nazionale e popolare.
Con le oligarchie e il notabilato passiamo a Milano. Ora, va ribadito che Giuliano Pisapia è un autentico galantuomo di sinistra; galantuomo nel senso di membro della upper class, figlio del Prof. Giandomenico, iscritto nell’ideale Pantheon culturale italiano. Esprime in particolare il tratto profondamente amendoliano di una tipologia dirigenziale di origine comunista: quella cioè del liberal-borghese, svincolatosi dalle ipoteche del verticismo hegeliano e quindi pervenuto alla social-empirica creatività gramsciana. Idealtipo fattosi così interprete, non esclusivo ma certo consapevole, della vita italiana. Ne ha il profilo, le maniere, la visione. Ma di Giuliano Pisapia non inquieta l’indubbia selettività dell’origine, stemperatasi lungo una trama storica e personale intrisa di immediatezza e di sperimentata quotidianità; ciò che inquieta invece è la presenza, accanto e dietro il suo profilo, di fattori estrinseci a quella tradizione, questi sì, autenticamente notabiliari, che ne ostacoleranno ogni positiva esplicazione. Infatti, i suoi fianchi non sono stretti da malconci epigoni delle scorribande in Eskimo. Né dalle socialità antagonistiche, alle quali, peraltro, anche e soprattutto in un’ottica moderata e legittimamente conservatrice, si dovrebbe guardare, oltre che come ad una questione di ordine pubblico, pure con maggiore curiosità analitica: vi fosse mai una matassa di bisogni e di istanze, disordinatamente impigliate a miraggi e a moti anarcoidi. E tentare di districarla, a prevenire il rischio di involuzioni stabilmente violente, sarebbe il segno di una visione coraggiosa e lungimirante, come quella di Walter Tobagi. Né, infine, pare che Pisapia possieda l’ineffabile capacità di moltiplicare i fenomeni migratori o i problematici insediamenti che ne scaturiscono. Anche in questo caso, sarebbe auspicabile che dalle parti di Berlusconi ci si accostasse all’argomento con un piglio adeguato alla dimensione storica, culturale, specialmente umanistica, di una nobile e antica nazione come quella italiana, piuttosto che cedendo alle lusinghe di una isteria tremebonda e angustiata da paturnie valligiane.
No. Le stratificazioni, i contenuti e i simboli che circondano e stringono Pisapia, che ne mineranno l’azione politica, sono altri. E ben altrimenti insinuanti e corrosivi. Rameggiano dagli endorsement ricevuti: esemplari quelli di Piero Bassetti (Bocconi, London School of Economics, primo Presidente, democristiano, della Regione Lombardia, deputato), di Giulia Crespi (storica, quasi mitica proprietaria del Corriere della Sera diretto da Piero Ottone, animatrice del suo celeberrimo salotto, l’archetipo di ogni salotto, in cui s’incontrarono, per poi crescere e moltiplicarsi, la società dello champagne e quella dei Mario Capanna), di Milly Moratti (insuperata sintesi di radici petrolifere e anima ecologista, militante con i Verdi, presidente della fondazione Emergency); endorsement formulati dall’intera cerchia familistico-oligarchica che a Milano è passata indenne attraverso tutte le fasi storico-politiche più significative dell’ultimo secolo: fascista con i fascisti, cattolica e popolare all’instaurarsi della Repubblica, bohèmien e divertita movimentista dalla fine degli anni ’60, comunista e oltre dal ’75 fino a Craxi, flessuosamente rampante nella Milano da bere, manettara con Tangentopoli, ambiguamente possibilista col Cavaliere e oggi, al suo evidente epilogo, sua irriducibile avversaria. Tuttavia, sempre ben attenta a non smarrire la verità del suo più profondo essere: il danèe.
Impareggiabile metafora di questo mondo, così apparentemente modaiolo ma in realtà inseparabile dal suo status, è Anna, interpretata dalla magistrale Sofia Loren di “Ieri, Oggi, Domani”, il capolavoro in tre episodi diretto da Vittorio De Sica: la ricca signora milanese che per scapricciarsi insieme al fascinoso Mastroianni, lì icona del dilemmatico intellettualoide male in arnese, con degnazione mascherata da disinvoltura egualitaristica, si avvia sulla sua utilitaria; quando però la sua macilenta condizione li lascia in panne, non esita ad esibire le sue credenziali (nome del marito) in favore di un “cumenda”, nel frattempo sopraggiunto su quella stessa strada; il quale, alacremente fattene accomodare le grazie sulla sua Rolls Royce, la riporta a casa e nel suo mondo, lasciando l’illuso Mastroianni solo e irrimediabilmente appiedato. Non a caso la sceneggiatura fu di Alberto Moravia, fra i più acuti e intransigenti critici di quelle che allora si chiamavano “le ipocrisie borghesi”.
Questo capolarato notabiliare, che incombe su Pisapia, ipotecandone l’eventuale ruolo, a ben vedere allunga la sua ombra sclerotizzante pure su Berlusconi, imponendogli un’inaspettata eteregonesi dei fini. Pour case, il Sindaco uscente, in cerca di improbabile conferma, simmetricamente esprime quello stesso ambiente. Averla scelta ha rappresentato un tarlo per il moto libertario e originale annunciatosi nel 1994, magari disordinato e pieno di nodi irrisolti, ma nuovo e certamente lontano e, soprattutto, inviso a quest’establishment. Per chi crede a quelle che Giorgio Galli chiama le “coincidenze significative”, forse nessuno, meglio di Letizia Moratti, poteva rappresentare il crepuscolo di Berlusconi. Che a Milano, comunque vada, nel 2011, cede le armi della sua briosa e impavida eterodossia di comando all’inamovibile grumo d’interessi cui aveva lanciato la sua sfida. La sinistra, per il momento, ne sarà il maggiordomo.