Secondo il critico letterario Franco Moretti (fratello del più noto Nanni), docente a Stanford, accanto alla forma narrativa “Romanzo”, esiste la forma narrativa “Opera-mondo”: mentre il romanzo tradizionale appare legato all’istituzione dello stato-nazione, le “Opere-mondo”, come dice la parola stessa, hanno un’espansione territoriale più vasta, legata all’intero pianeta. Espansione non solo geografica, ma pure di contenuti, di forme. Faust, col baratto diabolico tra la sua anima e la conoscenza assoluta, ne sarebbe l’indiscusso modello originario. Ora, il caso Strauss-Kahn pare proprio un “opera-mondo”. Non nel senso che sia un romanzo, non foss’altro perché ha appena avuto inizio, ma nel senso che presenta caratteri tali da connetterlo immediatamente alla cognizione, alla sensibilità, alle passioni che ognuno, in ogni tempo, in ogni modo, dovunque può nutrire sulla Terra. E perché qui, come vedremo, di anima e di diavolo pare si voglia parlare. Quali caratteri? La veste del protagonista, innanzitutto, perlomeno, la più nota: Direttore del Fondo Monetario internazionale, cioè di un’istituzione chiamata potenzialmente ad incidere sulle speranze e sulle paure di qualsiasi stato, e, quindi, di qualsiasi suo singolo cittadino o suddito. Il luogo dell’evento: New York City, la capitale del c.d. mondo occidentale, una ribalta che si estende come un orizzonte, aperto ad una visione libera e sconfinata. L’ipotesi di reato per cui si procede: l’archetipo universale e perenne della sopraffazione, della lineare e plastica malvagità: un uomo contro una donna, un potente contro un’umile, ricchezza contro povertà. Ma, forse, il caso Strass-Kahn è un “opera-mondo” anche in un altro senso. Meno letterario, più volgare. Nel senso che denuda, sta denudando, denuderà (le parole possiedono una loro misteriosa e irrefrenabile impertinenza) più e meglio di mille sofisticate analisi critiche, la viltà dell’impostura, la vanità dell’inganno, il vaniloquio mascherato da professione di principio. Miserie che hanno anch’esse tratti e movenze tipicamente universali. E che non riguardano l’imputato. Riguardano quanti, colti di sorpresa da un imbarazzo improvviso, dalle pieghe di un uomo reso una categoria, si sono inavvertitamente rivelati, attingendo al loro fondo più intimo e più infimo.
Strauss-Kahn è un raffinato socialista, solido aspirante all’Eliseo e, da lì alla guida di una illuminata riscossa sulle plebee derive tribunizie, sparse qua e là in Europa? E allora si prescinde dagli indizi, dalle accuse (tutte da provare, s’intende) e si svicola, anzi si piroetta, con la noncuranza octroyèe con cui una certa cerchia di intellettuali è solita effondere le proprie inaccessibili certezze. Ha piroettato Barbara Spinelli; ha piroettato Bernard Henri_Levy. L’una ha depurato di ogni scoria terrena l’illustre amico-imputato, incorniciandolo nelle sublimi inquietudini di Dostoevskij: non più un possibile impuro, della più terrena delle impurità, ma, noblesse oblige, un sicuro e tuttavia folle giocatore, anzi, Il Giocatore, non avvinghiato allo squallore favelato di una bruttura lupigna, ma slanciato da una ubris escatologica verso un cimento superomistico, disposto a perdersi pur di conoscere, a pagare ogni prezzo per un valico tragico e necessario: sparisce lo sperma dal tappeto, affiora l’automartirio etico ed esistenziale. Quante parole, quanti contorcimenti! L’altro è più avvocatesco, dubita dei reperti, delle dichiarazioni e, con l’amico (un altro), difende la Patria, Parigi da New York, la Francia dall’America. E giù abominio, sdegno, orrore per il Perp-walking, l’esibizione, parte semovente, parte coatta, dell’uomo ridotto a trofeo, del Perp-etrator, alla gogna teletrasmessa e teleamplificata; senza trascurare l’appendice allusiva: a trame occulte, volte a liquidare, con Strauss-Kahn, l’espressione di una visione del pubblico in economia che si proclama neo-keynesiana e kennediana. Appendice, invero, pure presente nelle note libresche della Spinelli, demi-parisienne. Con tali glosse, a ben vedere, l’Opera-mondo, sembra rientrare entro i più contenuti e familiari confini delle convenienze e delle infantili partigianerie, romanzate ad uso e consumo di una provinciale albagia, di un cotè nazional-personalistico: se lo fai tu sei cattivo, se lo faccio io…forse non l’ho fatto e, comunque, non è’ la stessa cosa: perché voi siete barbari e noi no.
Certamente, un uomo colto e brillante, capace di una carriera di vertice planetario, in ipotesi, rimasto impigliato alle sue voglie, come un qualsiasi primitivo di una periferia degradata, può anche alimentare interrogativi a sfondo psicoanalitico (e le labirintiche profondità esplorative di Dostoevskij, com’è noto, suggellano anche consimili letture); e la gogna, mediatica o diretta, ad una sensibilità reale e sincera verso il nucleo primario e invulnerabile della dignità dell’uomo, cioè l’intimità dei sentimenti che ne disegnano il volto, è spettacolo che ripugna e andrebbe sempre, sempre energicamente censurato. Solo che c’è un problema. Il problema è proprio quel “sempre”. Se non si fosse militanti dell’inganno e dell’impostura, riaffermare la presunzione d’innocenza, interrogarsi sul possibile conflitto fra uomo esteriore e uomo interiore, scandagliare le misteriose ragioni di pratiche dissolutive, potenzialmente distruttrici di fama, potere, meriti, capacità, sarebbero non solo incancellabili tracce di civiltà e di cultura, ma, in quanto autentiche professioni di principio, costituirebbero “un faro per sempre fisso, che guarda alle tempeste e mai ne è scosso”, come notoriamente canta Shakespeare, scrivendo dell’amore: il principio dei principi. Ma che significa, autentiche professioni di principio? Significa, appunto, che si crede, si parla, si scrive, si agisce, per un’idea superiore e modellante e da questa ci si muove verso la vita, verso i singoli infiniti fatti che la possono esprimere. Non viceversa. Se per la Spinelli, per Henri-Levi, un potente che s’ingaglioffa è un mistero su cui soffermarsi, la gogna a cui è sottoposto un’abominio da aborrire, l’innocenza presunta una condizione reale da riaffermare, i meriti e la vita trascorsa un’imprescindibile filtro per restituire equilibrio e umanità ad un giudizio, entrambi dovrebbero (meglio, avrebbero dovuto) soffermarsi sul mistero, aborrire la gogna, riaffermare l’innocenza presunta, restituire umanità al giudizio sempre, in nome di un principio che è tale se è “per sempre fisso”. Proprio perché un tale turbinìo orbita su un giudizio penale che, per la sua portata e i suoi possibili effetti, tende a ridefinire i lineamenti e i fondamenti di una vita intera, come naturalmente avviene per ogni giudizio penale. Quando questo non accade con risoluta uniformità, ma in modo ondivagante, non vi è principio, ma fine: sia nel senso di crudo scopo contingente, sia nel senso di mesta conclusione per ogni discorso, per ogni velleità d’elevazione. Si è abusato del principio è lo si è macchiato di opportunismo, di lezioso particolarismo, di boria distintiva.
E’ fin troppo evidente che tanto l’uno quanto l’altra (qui assunti a simboleggiare un certo modo d’essere e di pensare il ruolo intellettuale), nell’accostarsi alle presunte derive satrapiche di Berlusconi, hanno disatteso quei principi, mortificandoli, mortificando lo stesso concetto del “Principio”, quale guida nobile ed eternante. Né varrebbe osservare che questo è un Primo Ministro, e, pertanto, ragioni di opportunità, di prestigio e altro ancora giustificherebbero uno strenuo rigore; giacchè il Direttore del FMI, come minimo, vale altrettanto; o che Strauss-Kahn si è dimesso “per proteggere l’Istituzione”, e Berlusconi no. Riconosciuto l’alto valore del gesto, nel caso di Berlusconi, la questione delle dimissioni si complica; per il connesso conflitto con la volontà popolare sovrana, che verrebbe neutralizzata non da un atto uguale e contrario, vale a dire, da altre elezioni, o dalla sopravvenuta sfiducia parlamentare, ma da un’evenienza estrinseca alle ordinarie dinamiche istituzionali: una presunzione di colpevolezza prima del giudizio, perdipiù contraria alla Costituzione. E tutto questo mentre il Presidente del Consiglio non solo protesta la sua innocenza (come Strauss-Kahn), ma riafferma, quale massima espressione del suo mandato politico, la tendenziosità delle indagini e dei processi che lo riguardano, presupposto per le sue invocate dimissioni. Sicchè il parallelo si può formulare fino ad un certo punto, anche e soprattutto sotto lo specifico profilo del “proteggere le istituzioni”. Ma, quand’anche le due situazioni fossero sovrapponibili (e non lo sono), se le parole di quel ceto intellettuale fossero state riconducibili a professione di principii, avremmo potuto leggere, magari a margine dei commenti sul “Caimano”, qui e Oltralpe, pensose e sofferte meditazioni sul segreto istruttorio; sui processi televisivi (non quindici secondi di tragitto, ma ore e ore di paradibattimenti isterici e spettacolari); sul rispetto e sul valore della sfera privata di chiunque sia coinvolto da vicende giudiziarie (la cameriera del Sofitel è stata oscurata, e sottratta alla voluttà concupiscente di ogni giornalismo soubrettaro); sull’equilibrata relazione fra i poteri dello Stato; e, visto che si cultureggia, che so, sulle Boeufs-Tigres di Voltaire (cervello di bue e ferocia di tigre, variazione ulteriormente mostruosa del Minotauro, in cui, secondo il Filosofo, rischiano di trasformarsi i magistrati), e così via. E invece niente. Niente di niente. Solo una claque acritica, racchiusa nella compunzione di uno scolaretto esibizionista, ma, in fondo, e neanche tanto, negletto ed emarginato.