Il sindaco Letizia Moratti durante il dibattito con Giuliano Pisapia
Che Letizia Moratti abbia commesso un errore è opinione largamente condivisa. Poche le eccezioni di sostegno monolitico, peraltro sciattamente motivate. E se fra queste vi è pure Berlusconi, sbaglia pure lui. Un errore grave. Perché a Giuliano Pisapia si è riferita una condanna, ma era un’assoluzione. E perché è un galantuomo. E, per inciso, la storiella dell’appartamento a prezzo di favore, peraltro della compagna e non suo, va ascritta a quei piccoli privilegi che, dalla notte dei tempi, corredano le classi dirigenti, se non si vuole sprofondare nell’ipocrisia, prima ancora che in un pauperismo sempre sospetto e pericoloso; pertanto, e in tempi di mignottume a carico dell’erario, la pianterei lì. Perciò è e rimane un galantuomo.
Ora, è pur vero che a Milano si terranno elezioni amministrative. Ma poiché Milano è Milano e non uno sperduto villaggetto di montagna, quello che vi accade assume rilevanza nazionale. Non è un’improprietà, è la giustezza delle disuguaglianze. Così, quando il Sindaco uscente smarrisce il contesto, smarrisce il contesto politico nazionale. Quello in cui la sua parte politica e il suo leader affermano che da diciott’anni, proprio a Milano, si è creata un’anomala interpretazione dell’azione penale, obbligatoria nel solo senso che ne pare obbligato un impiego politico. Ma Letizia Moratti non ha solo smarrito il suo contesto politico; ha pure singolarmente valorizzato una cifra culturale, o meglio, sottoculturale che doveva invece vederla agli antipodi. Quella del c.d. giornalismo di trascrizione e del connesso sistema di sostegno acritico e verbosamente predicatorio: sempre ansimante di una sozza libidine dissolutiva. Sottocultura che si compendia nell’abuso di atti giudiziari e nell’impunita e perpetua violazione delle regole processuali: dal segreto istruttorio malamente disperso alla prevalenza delle indagini preliminari sul dibattimento. Com’è noto, l’effetto finale e sintetico di questa tendenza è stato di consegnare l’accertamento dei fatti ad uno sfuggente e unilaterale potere mediatico-investigativo. Accertamento che, così, non è più un accertamento, ma un’impostura. Su cui tuttavia si fondano inevitabilmente gli effetti che tipicamente dovrebbero riconnettersi al giudizio, in cui l’accusatore è una parte, l’accusato un’altra e il giudice è diverso dal primo e non coincidente con esso. Bene. Con questo contesto sotto gli occhi, che fa il Sindaco Letizia Moratti, mentre si ricandida alla carica? Recupera un episodio giudiziario del 1980 e lo scaglia nel 2011. Ora, l’errore non risiede nel riportarsi ad anni trascorsi, chè anzi la dimensione storica, fosse pure la minuta e irrilevante storia di ognuno di noi, è un filtro indispensabile per dirci se vi è sedimento o vuoto, esperienza o alienazione, pensiero o viscere. L’errore sta nell’ignorare in che modo gli anni siano trascorsi e trascorrano. Se, a connetterli gli uni agli altri, vi è stato un filo o una trama, magari strappata e poi faticosamente ricucita, o nulla.
Giuliano Pisapia frequentava in quegli anni tormentati, come molti giovani della buona borghesia milanese, un’area equivoca di disordine e confusione, anche violenta. Peraltro, il suo coinvolgimento giudiziario dipese dalle parole di quattro delatori (allora non esisteva il politically correct e, dunque, neanche i “collaboratori di giustizia”), ampiamente sconfessati in Appello. «In conclusione non vi è prova -si legge nella sentenza- di una partecipazione del Pisapia, sia pure solo sotto il profilo di un concorso morale, al fatto per il quale è stata elevata a suo carico l’imputazione di furto, dalla quale l’appellante va pertanto assolto per non aver commesso il fatto». E, se proprio si doveva riandare a quella storia, nei giorni di Ciancimino arrestato per calunnia, anche questo specifico aspetto della vicenda avrebbe potuto essere più attentamente soppesato. A maggior gloria di un’autentica fede civica e culturale.
Ma, pur avendo vissuto quegli anni, come pochi, pochissimi di quei giovani non solo non vi ha guadagnato, non solo ha pure subito un arresto e una detenzione senza titolo (quattro mesi, Pubblico Ministero Dott. Spataro), giacchè fu assolto (esattamente come il cittadino Lassini) ma, soprattutto, nel corso della sua vita professionale e politica, ha ampiamente testimoniato una linea di pensiero e di azione assolutamente nobile e coerente. Si dice che sia un garantista; ma la definizione è angusta: come tutti quelli che si animano di questo spirito, è, semplicemente, una persona convinta del primato dell’uomo sugli arnesi legislativi e, soprattutto, giudiziari. Esercita la professione di avvocato penalista, e non ha mai mancato di trasfondere le sensibilità che gli provengono dal conoscere i reali aspetti di indagini e custodie cautelari e processi penali e sentenze e condanne e assoluzioni e imputati e parti civili e appelli e cassazioni, nella sua dimensione pubblica di uomo politico e intellettuale. Lo ha fatto durante Tangentopoli, lo ha fatto da componente della Commissione giustizia, da saggista: insieme a Carlo Nordio, magistrato libero e, non a caso, inviso a certe consorterie, non essendosi mai purgato dall’onta di avere osato indagare sulle Cooperative e su certe aree politiche. Proprio quelle di Giuliano Pisapia. Solo che Pisapia è stato più forte dell’area politica, e quando questa ha significato micragnoso opportunismo e ottusa acquiescenza lui ha parlato, scritto e agito da uomo libero. Della stessa libertà avrebbe dovuto mostrarsi capace anche la Moratti. E proprio perché sul piano culturale, nella specifica e concreta esperienza di Pisapia, gli anni equivoci del movimentismo giovanilistico e irresponsabile erano stati ampiamente superati, in certo modo emendati, da una indefessa testimonianza di civiltà e di forza morale. Quella che fronteggia la furia manettara con la dignità dell’uomo.
Oggi, contestare il neofascismo processual-scalfariano è meno difficile stando nei pressi di Berlusconi che dove si trova Pisapia. E questo Moratti avrebbe dovuto considerarlo. Inoltre, ripescare atti giudiziari dal passato, come si è detto, per sé stesso è un atto legittimo, talvolta persino opportuno, purchè, però, non si manipoli o non si treschi. Cioè, il recupero storico votato all’analisi è una cosa, vuotare i cassonetti e sciorinarne il contenuto, confidando nell’ottundimento da ripugnanza, è un’altra cosa. Così si comportano certi specialisti della manipolazione e della menzogna organizzata, talmente infimi da non attingere neanche la soglia della propaganda, che almeno è ufficialmente tale e non lascia, chi volesse, nell’impossibilità di difendersi. Una manipolazione che si avvale proprio del disinvolto riferimento a “carte giudiziarie”. Le quali sono votate a riassumere osservazioni, analisi, studio, riflessione, confronto, e ancora osservazioni, analisi, studio, riflessione, confronto, in un’incessante e faticoso andirivieni dell’intelletto e della memoria. Chi le sottrae alla necessaria misura di silenzio e riservata quiete, scagliandole nel clamore della canèa, stupra tutto questo profondo e delicato sostrato cognitivo e lo riduce nei brandelli mostruosi e mendaci dell’allusione e del sospetto, dove alla narrazione complessa e sistemica del giudizio si sostituisce la salmodìa segmentata e impressionistica dello scandalo. Che simile abominio sia opera di tricoteuses in carriera, impegnate a covare sontuose fonti di reddito in nome del Bene e del Giusto è, se non accettabile, quanto meno dolorosamente consueto. Ma che un’espressione politica importante come il Sindaco di Milano, cioè del luogo deve tutto è accaduto e continua ad accadere, non abbia avuto, se non lo spessore, almeno l’estemporaneo guizzo per captare una sintonia istintiva e semplice con i milioni di persone che votano Berlusconi, sostenendone la massa critica, solo in quanto unico deterrente verso quelle storture, dice, più e meglio di ogni altra cosa, quanto l’attuale classe dirigente sia generalmente incolta e distonica rispetto al reale sentimento dei cittadini. I quali saranno pure simili ai loro rappresentanti, ma se continuano a passare sopra manchevolezze e stupidaggini di ogni tipo (da un gallismo ridicolo, a una stasi politica imbarazzante, a una compagine di governo sempre più ricca di incompetenze, il catalogo non è certo avaro di spunti critici) purchè si sradichi l’oligarchico e autoritario bubbone inquisitorio, vorranno pur dire una cosa chiara e comprensibile. Con il pietoso gesto di agitare un foglietto in cui stava annotata la vicenda giudiziaria di Giuliano Pisapia, Letizia Moratti ha mostrato di ignorare questo sentimento e, in fondo, di non capire buona parte dei suoi stessi elettori.
Non li capiscono Eco, Spinelli, Flores D’Arcais, Mauro e gli altri soi-disant illuminès, quando li accusano di volere Berlusconi come salvacondotto ai loro asseriti spiriti animali. Non li capisce la Moratti, quando veicola l’idea che rimarranno fedeli a Lei e al suo partito anche se, in un momento simbolicamente importante come un confronto televisivo, affonda nel becerume questurino e diffamatorio. Quello che antepone una condanna in primo grado ad un’assoluzione in Appello, o che santifica le condanne e interpreta le assoluzioni o, che, più in generale, guarda ai documenti giudiziari ostentando brividi di lubrico compiacimento, alla maniera dei santini per le beghine, imponendoli da vent’anni al pubblico dibattito quale materia unica e salvifica del progresso civile e culturale. Proprio quello.