Sul rapporto tra religione e capitalismo, tra etica e finanza, è stato detto di tutto e di più. Sulla questione si sono azzuffati in molti. Max Weber diede fuoco alle polveri rivendicando al protestantesimo virtù negate al cattolicesimo, scrivendo di una supposta incapacità cattolica ad adattarsi al capitalismo e alla sua etica. Un pregiudizio anti-Romano che aveva già condotto molti a definire i secoli del Medioevo, storicamente anteriori alla riforma luterana, come “bui” in quanto preda di poteri civili e religiosi incontrollati, malattie, arretratezza sociale ed economica. Senza nulla togliere ai fecondi secoli dell’illuminismo e della prima industrializzazione, si tratta di un’analisi sbagliata. E lo prova, tra l’altro, quanto nella modernizzazione europea avrebbero contato il Rinascimento italiano le cui radici “cattoliche” (lo stesso dicasi per il futuro stato unitario) vanno ancora adeguatamente studiate.
Sulla relazione della cultura medievale col denaro torna ora l’autorevole storico francese Jacques Le Goff, con “Le Moyen Age et l’argent”. Curioso il suo punto di vista, che prescinde dalla constatazione che la moneta è sostitutiva e rappresentativa di ricchezza esistente o attesa. E che quindi soltanto una società economicamente molto evoluta e a frontiere aperte consente a monete e titoli finanziari che le rappresentano di rivelarsi, rendersi tangibili in grandi quantità. Non è, come afferma Le Goff, che il denaro fosse rigettato dalla Chiesa e dal “suo” Medioevo per pregiudizio anticapitalistico. Il fatto che quel mondo vivesse immerso nel sacro non era un ostacolo alla diffusione del denaro, anzi una delle preoccupazioni del magistero fu di indirizzarlo ad un uso “giusto” ed equo, perseguendo le rendite speculative. I migliori ecclesiastici si schierarono con ferocia contro gli usurai, non contro chi utilizzava moneta per scopi imprenditoriali o sociali o pretendeva il giusto interesse sui prestiti. Gli ordini predicatori, domenicani e francescani, pur avendo scelto il pauperismo per sé, chiedevano ai ricchi di pagare la “giusta mercede” agli operai e di esercitare l’economia del dono caritatevole insegnato da Cristo. Loro fu l’istituzione dei Monti di Pietà. Lo stesso monachesimo, l’ala marciante della Chiesa ricca e potente, realizzò aziende che nulla avevano da invidiare alle più fiorenti creazioni del capitalismo “laico” successivo. Non solo agricoltura e artigianato, ma mercatura finanza servizi caratterizzarono il Medioevo: accanto e dentro i Comuni proliferarono “banchi”, cambiavalute, lettere di credito, borse, oltre ai citati “monti”. Si diffusero allora strumenti finanziari come la partita doppia, lo sconto, il cambiavalute.
Alla base della polemica anticattolica c’è un assunto politico: dove manca il capitalismo non c’è libertà politica, dove non c’è libertà totale di crescita per la finanza c’è oscurantismo, politico o religioso poco importa. A noi, smagati spettatori dei disastri del turbocapitalismo globale e dei suoi titoli spazzatura, l’assunto appare ideologico e fuorviante. Il capitale va regolato, messo al servizio del bene comune e condotto nell’alveo di leggi giuste. Il cattolicesimo medievale non operò contro la finanza ma per una buona finanza. Soccorre, in quest’ambito, il supporto dottrinale di un recente libro di Oreste Bazzicchi, “Dall’usura al giusto profitto”, sull’etica economica della scuola francescana. Nell’introduzione è citato Lord Acton: “… (quando) l’Europa ruppe con il medioevo, che non fu frainteso e condannato, bensì dimenticato e ignorato… il risultato fu l’assolutismo”. Un richiamo: la finanza islamica cresce perché si fonda su valori che dalla Riforma in poi l’Occidente ha rigettato.