Nella foto, L’arrivo di immigrati nordafricani a Lampedusa
Per ora è la Tunisia, prevalentemente. Sue sono la povertà, la rivoluzione, l’ambiguità che sciamano nebulose e rapide verso di noi. Figli suoi quelli che fuggono dalla novella libertà e sbarcano a Lampedusa, ripiegano su Ventimiglia. E ci interrogano senza parlare, solo con l’incavo dei volti, col dolore degli occhi, con le viscere ritorte ed estenuate dalla fame e dalla sete. Interrogano noi, che siamo italiani, europei, governo, opposizione. Interrogano le nostre abitudini, le nostre verità, le nostre giaculatorie. Alcuni di noi fuggono, altri si preoccupano, altri protestano, altri ancora sdottoreggiano.
Fugge l’Europa, innanzitutto. Dalla sua dimensione politica, cioè dal suo farsi pòlis, cultura, civiltà. E si stupisca chi vuole. Perché non è che l’Europa non esista, è che come luogo di civiltà, di cultura, di tradizioni, non è mai esistita e, probabilmente, non esisterà mai. Sono esistiti Roma repubblicana ed imperiale, il Sacro Romano Impero, quindi, gli Stati nazionali: Francia, Spagna, Inghilterra, prima, Germania, Italia, poi. E mentre quelli si formavano, il Mediterraneo diventava spazio conteso fra Cristianità e Islam. Cristianità: non Europa. Con il suo polline, il monachesimo, ad irraggiare e consolidare quella koinè religiosa allo stesso tempo in cui medicava e salvava la cultura greco-romana, custodendone i ceppi, rilanciandone il primato, preparandone le distinte filiazioni romanze. Tuttavia, in quel crogiolo marittimo, sapendo gli uni degli altri, inalterati nelle reciproche alterità, riuscimmo comunque a dare e a ricevere: non solo sangue e spada, ma anche merci e commerci, nozioni e cultura, città e arsenali. Ora che vorremmo essere Europa e non Cristianità, insieme laici e chierici, Oriente e Occidente, senza memorie proprie – preziose perché proprie, utili perché proprie, feconde perché proprie – e invece ripiegate e accantonate per inneggiare ad un futuristico e anodino afflato comune, al primo sembiante ritorno del Mediterraneo-arena, l’Europa, la magica Europa, con Maastricht, l’Euro, la BCE, i parametri di convergenza e tutte le velenose imposture a cui ci siamo aggiogati, mostrano la loro inemendabile miseria, l’immedicabile mediocrità della loro essenza ottusa e computistica. “Ci pensi chi ha il problema; no, forse, ce ne occuperemo al prossimo Consiglio Affari Interni e Giusitiza”. Nientemeno. Ma con calma, l’11 o il 12 Aprile. Da Carlo Magno al Rag. Barroso che, in queste ore, dall’imperturbato Olimpo di Bruxelles, sta pure officiando il Requiem per il suo Portogallo. Con Sarkozy, che di giorno s’intesta la Reconquista in salsa Carlà e di notte fa il nipotino di Le Pen. E con i nipoti di Lutero e di Calvino, che nicchiano sdegnosi. Tutti incapaci di testimoniare un versetto evangelico, di ossequiare un imperativo kantiano, di stringersi ad un patto d’onore. Si preoccupa il Governo italiano. Pare sia l’unico. Lo fa, essenzialmente, meritoriamente, col Ministro Maroni che, tetragono al richiamo delle valli natìe, deve resistere ad un duplice tiro alla fune: da un lato le regioni, dall’altro i rifugiati e i clandestini. Sì, perché, la dimensione del fenomeno (la mappatura allocativa prevede da un minimo di 10.000 fino a 50.000 persone, da accogliere nelle prossime settimane o, forse, nei prossimi giorni) collide anche con l’apparato normativo predi- sposto per la caratura, per dir così, fisiologica delle migrazioni. E la distinzione fra clandestini e profughi, alla luce della disciplina vigente, rischia di aggiungere complicazioni a complicazioni. Infatti, poiché è stato configurato il reato di immigrazione clandestina, per evitare la sanzione penale, probabilmente, con crescente frequenza, ci si dichiarerà pro- fughi, cioè in fuga da regimi dispotici (per ora, solo il 20% circa degli interessati lo ha fatto: ma per ora, appunto); fatto questo, il profugo viene accolto, godendo di ampia libertà di movimento dalla quale, facilmente, scaturisce il suo abbandono dell’Italia. Solo che, giunto in un altro Paese dell’Unione, a norma di disciplina comunitaria, in quanto profugo, viene riavviato al Paese in cui si è dichiarato tale. E si chiude un circolo vizioso. Così, Maroni pare consumarsi, solitario, sull’infuocato proscenio delle sue responsabilità. E predispone, media, invoca, lavora. Progettando la sola azione politico-amministrativa che potrebbe coniugare un’immediata risposta umanitaria e un’equilibrata ripartizione degli oneri conseguenti: un po’ per ciascuno. Incurante delle sinistre aspettative di chi vive nella sclerosi di ruoli televisivi e politicamente inerti. Di chi si aspetta, ammorbato da un germe parassitario e inconcludente, che il Ministro ceda alle sue radici territoriali, all’essere parte, smarrendo il suo ruolo nazionale, il suo dover essere tutto. Dietro di lui, Berlusconi. Che va a Lampedusa e si prende la scena: con l’annuncio di soluzioni fulminee, frutto della operosa tenacia di Maroni. Di suo, di veramente suo, si dedica al morale della truppa. Prefigura magìe urbanistiche, evocando le floreali coloriture di Portofino, attento a precisare che lo slancio emulativo ha già funzionato in una innominata città del nord; descrive riscatti repentini, trainati dalle icone spumeggianti di un Casinò e di un campo da golf; lancia promozioni socio- economiche definitive, innescate da un regime fiscale liberatore e dedicato. E suggella la performance con l’annuncio di aver comprato una villa, (naturalmente) e di essere diventato “lampedusano”. Fa quello che sa fare meglio. Vende, promette, rincuora. Poco per un uomo di Governo, per il capo del Governo. Poco, non nulla. Anche perché, scaltro, sa che la questione, se non risolta, potrà essere almeno efficacemente arginata solo agendo alla fonte. E allora co- munica che Lunedì andrà in Tunisia. Vedremo. Ma molto per il capo del partito, per il capo-popolo. E, a scanso di equivoci, nell’attuale sistema politico-elettorale, che è tessera importante ma non unica del mosaico telecomunicativo, i leader di partito o di coalizione, in misura che varia ma senza scalfire l’essenza del dato, sono, necessariamente, dei capi-popolo: superficiali e oppressi dal just in time, dal ritmo del palinsesto, dalla frenesia dell’impaginazione, dalla necessità di farsi continuo, chiassoso e invadente spot. Il fatto è che Berlusconi, in quest’arte povera, è il migliore sulla piazza. Ma il Governo italiano protesta, anche. E lo fa, angustamente, col Ministro Bossi. Che, negli ultimi mesi pareva assorto nella posizione di chi osserva, sicuro, sereno, le altrui difficoltà (processuali e parlamentar-numeriche, per intenderci); ed invece, all’improvviso, è tornato al primo amore: e, facile e piazzaiolo, ha consegnato alle paure dei suoi elettori un rassicurante grugnito padano. Probabilmente è solo apparenza, specie se si considera l’azione di Maroni, ma non è sembrata un’uscita opportuna. Protesta pure il Sottosegretario Mantovano, stimata e rara effige di sobrietà; lo ha fatto con l’energia di dimissioni autentiche, e tali perché rassegnate e basta, senza annunci stucchevolmente lamentosi e melodrammatici, alla Carfagna, o stiracchiati, alla Bondi. Si può solo auspicare, per il bene comune, che venga recuperato al più presto. Però, sia Bossi che Mantovano, in modi opposti, registrano un problema drammatico. E, quest’ultimo testimoniando, in particolare, il fondato timore che si assecondi la fastidiosa tendenza, invero serpeggiante dagli equilibri governativi, a concentrare, se non a confinare, tra Italia centrale e meridionale la soluzione del problema. Europa a parte. E passiamo a chi sdottoreggia. Dando anche la sgradevolissima impressione di giocherellare: come ha fatto, compatta e risoluta, l’intera opposizione. La quale, prima, ha ironizzato sull’imbarazzo del Governo, suscitato, a dire della dottrina, da flussi migratori non dissimili dal consueto; poi, quando la valutazione si è rilevata sciatta, ha censurato l’imprevidenza altrui, assicurando che si doveva prevedere e non si era previsto (dimentica che neanche i rinomati servizi segreti israeliani e statunitensi avevano, quanto meno nelle relazioni ufficiali, previsto alcunché) e, comunque, chiosando, ad ogni buon conto, che chi intrattiene rapporti amichevoli con Gheddafi, si merita questo e ogni altro tipo di affanno; quasi fosse una questione personale e non nazionale. Ed infine, chiamata, forse spiazzata, dalla dirittura di Maroni, ad agire senza troppe chiacchiere, in più di una regione sotto la propria amministrazione ha opposto una risoluta perplessità, quando non un vero e proprio rifiuto (Toscana e Basilicata, i casi più clamorosi). Al poco di Berlusconi si giustappone il niente di Bersani & Co. Non è fantastico?
Anzi, niente non proprio. Giacchè il Centro-sinistra, in uno al neo-Illuminato Presidente della Camera, è l’unico baluardo della legalità democratica (così piace francesizzare a lor signori), hanno spiegato alla sprovveduta popolazione italiana che il vero problema è un altro (e ci mancherebbe!). E qual è? Ma Berlusconi, naturalmente! E i suoi processi. Per cui, mentre si affliggono masse di disperati con i rigori della Legge Bossi-Fini (a proposito: ma il Presidente Fini che pensa, ora che è diventato democratico, del suo precedente operato?), in Parlamento si ordiscono trame e manovre di favore. E allora vanno bene i tumulti, cui seguono, ahinoi, isterie e scompostezze pure dove non dovrebbero mai figurare. Per ora, basti un accenno. Lo si diceva prima; la scelta di introdurre il reato di immigrazione clandestina è stata infelice, stante la notoria inefficacia strutturale del diritto penale, frequentemente piegato ad una funzione simbolico-espressiva e distolto dal suo alveo naturale, che è quello di punire poche e gravi condotte antisociali: il resto, serve solo ad un certo modo di interpretare il ruolo del Pubblico Ministero, serve per ficcanasare dovunque, cioè; ma, fuori da quello che dovrebbe essere il suo ambito d’elezione, il diritto penale non risolve un problema, né lenisce una ferita che sia una. Per converso, la scelta di ridurre i termini di prescrizione è sacrosanta. La prescrizione sanziona l’inerzia o l’inefficacia della giurisdizione (di cui le investigazioni dovrebbero essere solo l’innesco, avendone invece usurpato la sostanza: quello che accade durante le indagini preliminari, sotto la monolitica egida del Pubblico Ministro, conta; quello che accade nel corso del processo, innanzi ad un Giudice terzo, non conta un bel niente. Oggi, il povero Giudice, a festa conclusa, al più, può fare le pulizie e, quando ha finito, chiudere la porta). In un ordinamento democratico, dunque, minore è il tempo in cui il cittadino resta “a disposizione” dell’Autorità (peggio ancora se in galera), maggiore è il grado di civiltà raggiunto. (Tanto è vero che i termini previsti dal Codice Penale, appena smussati dalle recenti modificazioni legislative, sono tuttora, pari pari, quelli voluti dalla Buonanima: quale espressione incoercibile e muscolosa del prevalente interesse dell’Italia fascista alla imperitura affermazione del diritto dello stato). Semmai, vanificata la legittima aspettativa di un accertamento giudiziario, si tratterebbe di sanzionare l’inerzia di chi a quel compito è istituzionalmente preposto. Come il semplicissimo buon senso imporrebbe. E risparmiando ai cittadini la protervia e l’ipocrisia delle sceneggiate sui fondi per la carta igienica o per le fotocopie o per la benzina o altro ancora. I magistrati sono dei ricchi signori, garantiti oltre ogni ragione; perciò, se lavorassero in guisa corrispondente ai bonifici mensili, ne saremmo tutti più lieti. A superare e ad estromettere Berlusconi, se sarà il caso, ci penseranno gli italiani.