E’ cominciata una guerra. Un’altra. Un’altra di quelle politically correct, con tanto di deliberazione ONU, buoni, cattivi e copertura televisiva. E con un casus belli (la no fly zone pareva attendere solo di essere violata e dichiarazioni unilaterali di cessate il fuoco sono state accigliatamente ignorate) ad annunciare nuovi morti da video-game, che ci sono ma non pesano, anche se civili e non militari. Gheddafi è un despota, certo. Come il Re saudita Abdullah, d’altra parte. E la Cina ne è piena. Per non parlare della pantomima con Teheran, che si trascina da anni. E si potrebbe lungamente continuare. Pertanto, non sarebbe male chiedersi, e francamente, perché Francia e Inghilterra abbiano agito con tanta determinazione verso questo despota e come l’Italia, nel caso, si stia conducendo. E se la soluzione militare sia l’unica ad esprimere sensibilità politica verso le ragioni dei civili, oppressi e repressi. Quest’ultimo punto può essere subito risolto. In primo luogo, perché masse di inermi bersagli hanno sufficientemente sperimentato quanto sappiano essere intelligenti i bombardamenti, di generazione più o meno avanzata. E poi, perché, se così fosse, la Germania risulterebbe avvolta nella barbarie. E sulla cautela mostrata dagli Stati Uniti, fino a due giorni fa, si stenderebbe un’ombra equivoca. Ma, soprattutto, se si istaurasse una perniciosa relazione fra gravità delle violenze inferte alle popolazioni e necessaria durezza dell’intervento, si manderebbe definitivamente alle ortiche, e proprio nei casi di maggiore importanza, lo strumento delle mediazioni tenaci e sapienti, della feconda mistura di azioni ufficiali e coperte, della simbiosi fra il detto e il non detto, cioè della politica. Che non è l’ultima risorsa delle comunità, ma la prima e l’unica capace di effetti duraturi.
Le cose però, forse sono più complicate di una mano di Risiko. E, per noi, oltremodo gravi. Infatti, nel Mediterraneo (che è un mare di guerra), dopo il secondo conflitto mondiale, i rapporti fra Italia, Francia e Gran Bretagna, sono sempre stati latentemente ma aspramente conflittuali, grazie anche all’ampio spazio di manovra strappato, con meritoria abilità, agli Stati Uniti dai nostri più lungimiranti uomini politici (Andreotti in chiaroscuro, con maggiore tenacia, Moro e, infine, Craxi). Washington, infatti, per un verso, riconosceva un nostro insopprimibile interesse geostrategico nell’area e, per altro verso, coltivando indulgenza verso le nostre politiche “corsare”, stringeva la museruola alle nostalgie imperialistiche britanniche. e all’irriconoscente bizzosità francese (che nel 1966, ricordiamolo, uscirà dalla Nato). Paradigmatico il nostro contegno nella vicenda Suez. Dopo l’occupazione militare anglo-francese del canale, conseguente alla nazionalizzazione voluta dall’Egitto di Nasser, la crisi fu risolta, com’è noto, grazie all’energica pressione esercitata dagli Stati Uniti, anche in quel caso rimasti defilati dal fronte. In sede ONU, l’Italia (che aveva già declinato l’invito a partecipare alla spedizione) votò a favore della mozione americana sul ritiro anglo-francese e, perché si capisse che non era una mammoletta ignara e pavida, in concomitanza alla crisi aveva celebrato la cooperazione italo-egiziana inaugurando, presenti Mattei e Nasser, gli impianti ENI, e con gli impianti, la prima di una serie di azioni vissute e percepite dagli inglesi come ostili verso i loro interessi petroliferi nella fascia nordafricana e mediorientale.
Durante la guerra d’Algeria, ancora Mattei (che con i suoi accordi 50/50 era la bestia nera anche per gli interessi petroliferi anglo-francesi nel Mediterraneo, fondati sulla politica del 70/30) fu fra i principali sostenitori del FLN (il Fronte di Liberazione Nazionale che guidò la guerra di indipendenza algerina) il quale potè pure contare sul supporto logistico e informativo dei nostri servizi segreti militari, attenti ad indebolire un nostro concorrente nel Mediterraneo.
La questione cioè, non è solo di rapporti con la Libia. Certo, il colpo di stato che depose il Re Idris (terminale dell’influenza britannica sulla Libia, impostasi su quella italiana dopo la guerra, e mai del tutto digerita dagli Stati Uniti che favorirono le indomite mire italiane) e portò al potere Gheddafi fu preparato in un albergo di Abano Terme, e già nel 1971 entrammo in urto con gli inglesi sabotando l’operazione Hilton (il tentativo di abbattere Gheddafi e di ripristinare il dominio britannico sulla Libia) sebbene le relazioni col Colonnello non siano state semplici e pacificamente proficue, come da più parti, con superficiale unilateralismo, si è sottolineato: hanno anche registrato tre gravi crisi, nel 1980 (uccisione di cinque oppositori al regime in territorio italiano, sequestro di pescherecci, arresto di tecnici italiani, sospensione del rifornimento di metano alla Saipem), nel 1986 (lancio di Scud su Lampedusa) nel 1991 (partecipazione all’embargo aereo ONU).
Ma il punto è che si sapeva cosa fare. Infatti le crisi furono sempre ricucite, essendo, per tutta la Prima Repubblica, sempre prevalsa una visione ampia e di lungo periodo dei nostri interessi. L’impressione che invece si ricava osservando lo scenario attuale è che si proceda a tentoni. Ed evidentemente non è in ballo il pur non trascurabile accordo del 2008, con i suoi non risibili effetti sul drenaggio dei flussi migratori: e ben più rilevante del goffo baciamani su cui si è entusiasticamente esercitato l’inesauribile estro critico-estetico dei nostri maitre à penser. Qui si tratta di stabilire, senza la protezione della Guerra Fredda e della preziosa rendita di posizione con cui l’abbiamo attraversata, se sapremo tradurre in discorso politico comprensibile le sette basi già in assetto di guerra; se il Governo saprà dire alla Nazione che non è uno scherzo, che ci stiamo incamminando per una strada nuova. che tutto questo potrebbe costare, e neanche poco. E che se Obama si è cavato dagli impicci in cui la pressione internazionale lo aveva stretto, spingendo i partner più importanti dell’area (cioè l’Italia) ad interpretare la prima linea di questo improvviso (o improvvido?) fronte, non è detto che dovessimo farlo mettendoci alla ruota di Parigi e Londra. Giacchè una radicale annichilazione dei rapporti con la Libia (anticipata dall’inedita rottura delle relazioni diplomatiche) avrebbe conseguenze devastanti solo per l’Italia, e non certo per Francia e Inghilterra che nel Colonnello hanno sempre visto un ambigua sponda per le nostra fastidiosa, autonoma e tenace presenza mediterranea: pegno di migliori condizioni nell’approvvigionamento energetico e, quindi, di una più solida statura internazionale, sullo sfondo, eternamente egemonico, dei rapporti fra Stati. In altri termini, così come stanno le cose, rischiamo di andare ad una guerra (poco importa quanto breve) che avrebbe il solo effetto finale e duraturo di sottrarci definitivamente ad uno strategico ruolo regionale, lungamente inviso ai nostri due agguerriti competitors, esponendoci, inoltre, alle conseguenze più pericolose e onerose dell’operazione (e non solo in termini economici, visto che siamo l’unico stato confinante della coalizione). Un capolavoro, non c’è che dire.
Che sia un pasticciaccio, d’altra parte, è risultato in modo imbarazzante anche dai volti tirati, offerti agli osservatori di mezzo mondo, con cui i nostri Ministri degli Esteri e della Difesa hanno comunicato il divisamento bellico. E Berlusconi? Dopo aver taciuto, si accoda, e si prepara ad affrontare gli immancabili ed indispensabili processi. Quanto all’opposizione, senza incarichi di rilievo, priva di orientamento e leader, attende, fiduciosa, nuova procura.