La fortezza di Gaeta nel 1861
IL 17 MARZO si celebrerà il centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Ricorrenza che ha il suo peso, ha una sua portata. Ma trova dinanzi a sé il volto torvo della Lega Nord, trova dinanzi a sé individui “tagliati con l’accetta”, basta guardarli i capi del separatismo settentrionale, uomini politici il cui potere supera di gran lunga la consistenza elettorale del loro partito, o movimento, chiamatelo come meglio credete. Aria di secessionismo anche in contrade del Mezzogiorno, ma questo è un secessionismo che può vantare la nobiltà di cui sono invece privi i “Padani”. Forse fra i separatisti meridionali si aggira qualche personaggio il quale agisce più per convenienza bottegaia che per idealismo e senso della giustizia, ma in generale il sentimento è quello di italiani che si sentono traditi dalla Repubblica, di italiani secondo i quali il vittorioso Risorgimento per le masse del Meridione fu più una.
Probabilmente la verità è che dell’imprescindibile Unità d’Italia fu fatto un cattivo uso di cui pagarono
lo scotto soprattutto siciliani, campani, pugliesi, lucani, molisani, ma anche veneti, toscani, liguri. Tanto per fare un esempio, Livorno all’epoca in cui era porto franco si piazzava ai primi posti fra le città più ricche d’Europa e un certo benessere raggiungeva anche i ceti popolari; ma in seguito all’unificazione dell’Italia e all’abolizione del porto franco, Livorno si avviò a un lento, molto lento, eppur inesorabile declino.
Ci si accinge quindi a ricordare la proclamazione dell’Unità d’Italia (ma il 17 marzo 1861 mancavano ancora Roma, il Trentino, Trieste) in un clima già avvelenato, e questo avviene per colpa esclusiva della Lega. Uno dei suoi “campioni migliori”, il Calderoli, verso il quale proviamo un’avversione inevitabilmente epidermica, è incorso giorni fa in un sesquipedale sfondone, affermando che la celebrazione dell’Unità d’Italia, “è incostituzionale”.
Incostituzionale…? Il personaggio non sa quello che dice. Del resto l’Italia da un bel pezzo è nelle mani di individui i quali non sanno quello che dicono. Il 17 marzo è insomma alle porte. Noi ci auguriamo che nella solenne occasione vengano ricordati tutti gli italiani caduti fra il 1799 (anno di nascita e di morte della Repubblica Partenopea, i primi spari del Risorgimento) e il 1861 (anno della definitiva resa dei Borbone, avvenuta nella piazzaforte di Gaeta).
Ma non ci accontenteremmo di poche, generiche, fugaci parole. Vorremmo che si svolgessero mostre, convegni, si pubblicassero opere di alto valore civico e istruttivo. Opere soprattutto scientifiche, quindi rigorose, con dati, cifre inoppugnabili, riguardo, per esempio, al tenore di vita nella Sicilia del 1860, allo stipendio annuo di un Sergente dei Bersaglieri e di un Sergente dei Cacciatori borbonico, alla paga di un muratore milanese e alla paga di un muratore palermitano. Vorremmo che – spegnendo una buona volta i cellulari e ignorando le sciocche fiction televisive – ci si raccogliesse in onore dei caduti della Repubblica Romana del 1849, dei caduti di Novara, Solferino, Pastrengo, Calatafimi, Milazzo, Caiazzo; ma “anche” in onore degli italiani morti in combattimento con indosso l’uniforme borbonica.
Erano tanti, tantissimi gli italiani che servirono in armi la causa legittimista del Regno delle Due Sicilie. Erano siciliani, calabresi, pugliesi, napoletani. Non avevano gusti tanto dissimili da quelli dei fanti, dagli artiglieri che venivano dalla Lombardia, dal Piemonte, dalla Toscana. Si batterono sempre bene e il meglio di se stessi lo dettero i soldati agli ordini del Generale Bosco. Morirono in tanti, a Palermo, Milazzo, sul Volturno. Non sbandarono mai, anche se gli altri comandanti non avevano la stoffa di Bosco.
Questo dimostra che era alquanto alto il loro senso di disciplina: meno motivati di milanesi, fiorentini, torinesi, restarono però sul posto. Ignorarli il 17 marzo (come lo erano già stati il 17 marzo 1961), vorrebbe dire ucciderli ancora una volta.
Forse verranno uccisi un’altra volta ancora.
moc.liamg @ilotnased.inoT