Nella foto Francesco Bonami (a destra) insieme al giovane Gary Carrion-Murayari
«Tutti dicono che curare una biennale d’arte è una questione di potere, beh, forse quella di Venezia, in quella del Whitney il potere non c’entra, per me è stata una questione di fiducia». Così esordisce alla conferenza stampa dello scorso 23 febbraio Francesco Bonami, primo curatore italiano , insieme al giovane Gary Carrion-Murayari, di una biennale americana.
«La sensazione è quella di appartenere all’America in un altro modo» continua, «uno State of Mind, ben rappresentato dalla Whitney Biennal 2010».
Arguta dunque la scelta di non avere un tema, ma solo una data: 2010 è sicuramente meno restrittivo e rischioso. Difficilmente qualcuno potrà criticare un artista di non rientrare in un periodo storico.
Con 2010, la Whitney Biennial vuole celebrare l’arte che ha preso forma nell’America del cambiamento. I lavori esposti saranno le risposte all’ansia e all’ottimismo degli anni precedenti.
«Questa biennale è più intima, personale. Quello che desidero è che ognuno comunichi con l’artista e costruisca il proprio dialogo con il lavoro esposto» continua il curatore «la selezione è avvenuta seguendo il mio ideale d’America, se fosse stata una selezione oggettiva vi sareste annoiati tutti! L’idea racchiude non solo il mio percorso, ma anche quello di tanti altri che hanno attraversato l’oceano attratti dall’immaginario degli Stati Uniti». E a proposito di attrazione fatale per l’America, per capire cosa intende Bonami con State of Mind salite al quarto piano e fermatevi davanti a “We Like America and America Likes Us”, l’opera con cui la collettiva Bruce High Quality Foundation ha partecipato a quest’edizione. Sul parabrezza di una vecchia 72 Cadillac Fleetwood, l’ambulanza di Ghost Busters per capirci, uno scorrere continuo di immagini iconiche. Tutto quello di cui l’America ci ha nutrito, privato, promesso, come in una relazione amorosa.
«La percezione dell’America è multiforme» aggiunge Bonami «dalla dimensione privata e intima all’eccesso di democrazia, della prateria americana al backyard di un appartamento». Senza privilegiare medium o stili estetici, Bonami ha dato via libera all’assemblamento di generi. Ogni piano ha un mood differente. Dal video alla fotografia, dalla scultura al disegno, installazione, performance. Da gesti individuali a incontri improvvisi, storie intime, personali. «Con questa biennale mi piaceva rappresentare questa tanto discussa America, passando attraverso tutti i suoi contrasti» conclude il curatore, aprendo al numeroso pubblico la tanto attesa mostra.