Come un copione già scritto, l’ombra sinistra delle mancate verità di Stato si allunga anche sulla strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli uomini e le donne della sua scorta. La novità è che a questo "traguardo" tipicamente italiano si è arrivati dopo quindici anni. Da qui un paio di domande che, purtroppo, rischiano di apparire banali: ci voleva proprio tutto questo tempo per capire che dietro i fatti di via D’Amelio c’era qualcosa che andava al di là della mafia ufficiale? E fino a che punto queste indefinite "entità" – servizi segreti o, comunque, "pezzi" dello Stato più o meno deviati – possono essere considerati cose diverse dalla mafia che abbiamo conosciuto nella cosiddetta Prima Repubblica?
Dal caso del bandito Salvatore Giuliano in poi, le "deviazioni" sono sempre state una costante della storia italiana degli ultimi sessant’anni. Chi ha sparato allo stesso Giuliano? Il cugino Gaspare Pisciotta? O come raccontava Giorgio Pisanò, ed esplodere i colpi di arma da fuoco fu "l’uomo dal berretto floscio" che quella sera entrò nella casa di cortile Di Maria, a Castelvetrano, dove Giuliano riposava, un personaggio che il noto esponente politico del Movimento sociale italiano identificava in un giovane Luciano Liggio? Chi ha preparato il caffè "corretto" che spedì all’altro mondo Pisciotta? Sicilia chiama, resto d’Italia risponde: si è mai capito veramente chi c’era dietro il Piano Solo? E che dire delle deviazioni del Sifar? E, proseguendo, dove sono i responsabili delle stragi di Piazza Fontana a Milano e di Piazza della Loggia a Brescia? E come la mettiamo con la strage di Bologna? E l’elenco potrebbe continuare con i tanti morti di mafia che, partendo dai primi anni ’80, arrivano fino alle stragi dell’estate 1992.
Almeno fino al 1992, stragi diverse. E morti diverse. Vicende comunque legate da un denominatore comune: la vischiosità, le difficoltà, in certi casi insormontabili, incontrate dagli inquirenti. Lo capì perfettamente nei primi anni ’80 lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, in quegli anni parlamentare nazionale e componente della commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto Moro: "L’Italia – disse Sciascia – è un Paese senza verità".
E oggi? La verità resta un traguardo difficile. Con qualche elemento peggiorativo in più. Perché, bene o male, con il cadavere di Giuliano ancora caldo, fu un giornalista – il mitico Tommaso Besozzi – a scoprire la farsa che era stata inscenata dagli uomini delle forze dell’ordine. Bene o male, non ci volle molto tempo per intuire che la pista anarchica, nella strage di Piazza Fontana, era una bufala. Bene o male, nei grandi delitti di mafia degli anni ’70 e ’80 non c’era bisogno di essere maghi per capire che i mandanti di tali delitti andavano ricercati nel mare magnum dove mafia, Stato e, con molta probabilità, anche interessi internazionali, segnatamente americani, si incrociavano in un gioco di inestricabili labirinti. Lo ripetiamo: quasi sempre la verità non è saltata fuori. Ma sono emerse le tracce. Non sono mancati i processi, in qualche caso un po’ troppo temerari.
Con le stragi del 1992 lo scenario è cambiato (e il riferimento non è soltanto alla strage di via D’Amelio, ma anche al tritolo che, meno di un mese prima, aveva fatto saltare in aria Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e la scorta). La Prima Repubblica è morente. La Seconda Repubblica sta vedendo la luce. Una cesura, quasi uno spartiacque, divide la storia criminale italiana in due tempi: prima e dopo il 1992. Nella prima Repubblica – questo ormai dovrebbe essere assodato – la mafia siciliana fino ai primi anni ’80 e, dopo, un po’ tutta la criminalità del Sud d’Italia, benché con ruoli diversi (camorra campana, sacra corona unita pugliese, ‘ndrangheta calabrese e, per certi versi, anche la banda della Magliana) ha svolto un compito non certo secondario nel mantenimento degli equilibri politici. C’era da fronteggiare un insidioso pericolo comunista. E, soprattutto al momento del voto, non si andava tanto per il sottile pur di mantenere l’Italia nel quadro dell’alleanza Atlantica.
Nel 1992 lo scenario è mutato. E caduto il muro di Berlino. Ed è crollato "l’impero comunista sovietico". La criminalità organizzata italiana non è più una variabile dipendente dal sistema Atlantico. Alcune recentissime inchieste giudiziarie e giornalistiche descrivono legami di nuovo saldi tra criminalità statunitense di origine siciliana e mafia tradizionale. Il passaggio è importante. Perché nel 1992 questi legami tra Sicilia e Stati Uniti sembravano spezzati. O comunque flebili. Ciò significa che le stragi del 1992 potrebbero essere maturate in un contesto del tutto italiano. E dovrebbero essere ricondotte a personaggi che, in quegli anni, esercitavano il vero potere nel Belpaese.
Certo, la magistratura, nel cercare di spiegare le ragioni delle stragi del 1992, ha impiegato troppo tempo per individuare una pista che lascerebbe intravedere "pezzi" deviati dello Stato. Forse, rispetto a quanto avveniva nella Prima Repubblica, ha incontrato qualche ostacolo in più. Ma alla fine il filone d’indagine è stato individuato. Sarebbe opportuno, a questo punto, far lavorare i magistrati. Evitando interposizioni. La speranza è che, questa volta, la politica non cerchi di allontanare la verità, magari sollevando i soliti polveroni