Con un’esperienza ventennale nel ruolo di Marketing Manager, Paolo Tramelli fu uno dei primi a viaggiare per sostenere e promuovere il prosciutto di Parma attraverso il lavoro del Consorzio in tutto il mondo. “Ho avuto la possibilità di conoscere e scoprire molte culture diverse”, racconta dal suo stand al Summer Fancy Food 2024, la fiera dell’agroalimentare più importante del Nord America, allestita al Javits Center. “I miei preferiti sono i giapponesi che rispettano il cibo nella sua essenzia più naturale e autentica”.
In qualità di Consorzio, cosa significa venire al Fancy Food?
“La nostra presenza è fondamentale perché gli Stati Uniti sono il nostro primo mercato export. Solo qui in fiera c’è una ventina di aziende associate al nostro consorzio, che vengono qui anche a supporto dei loro importatori e per cercare nuovi contatti. Spesso ci portano i clienti per finalizzare certi passaggi. Ma l’obiettivo principale del Fancy Food è che è un momento di confronto con tutte quelle realtà, dagli importatori ai ristoratori, ai retailer, che comprano, utilizzano e vendono il nostro prodotto. Avere la possibilità di parlare direttamente con loro è importante per crescere, per rafforzare rapporti già nati. Qui diamo un volto a quelle attività che vengono stabilite dall’ufficio. Ma riusciamo anche a intercettare tutte quelle persone che girano in fiera e che vengono da aree in cui non abbiamo ancora interagito”.
Che rapporto avete con le aziende che rappresentate? Offrite servizi alla singole imprese o, più in generale, a tutte allo stesso modo?
“Innanzitutto si fanno degli incontri in consorzio per discutere di attività promozionali, di problematiche del mercato e possibili soluzioni, di prospettive future. Spesso i nostri produttori, che conoscono la nostra offerta e i valori, ci portano i loro clienti e insieme a loro viene pensato il progetto. Abbiamo anche dei contatti diretti con le realtà locali (retailer e ristoratori). Per esempio, come succede qui negli Stati Uniti dove, attraverso un’agenzia con cui collaboriamo, possiamo operare in loco”.
Quali problemi, e poi soluzioni, devono affrontare le aziende che si affacciano al mercato statunitense?
“Ci sono diverse complessità. C’è necessità di fare formazione e abbiamo del personale che si occupa di questo, che visita e fa training con gli operatori delle diverse città qua negli Stati Uniti, perché una volta che arriva il prodotto bisogna anche saperlo trattare e rivendere. Rispondere a questa problematica è una delle nostre attività principali. Ma poi ci sono altre difficoltà relative alla logistica, sanitaria, nel senso che tutti i prodotti che arrivano dall’estero sono soggetti a normative particolari. E poi le etichette, cosa si può scrivere sulla confezione, sui menù. Dobbiamo tutelare il nostro prodotto”.
Uno degli ostacoli più noti è il fenomeno dell’Italian Sounding. Come comportarsi?
“Il prosciutto di Parma è un prodotto leader, preso come riferimento da un settore intero, e bisogna tener conto anche della possibilità di essere soggetto a queste problematiche. L’unica soluzione per noi è fare tanta formazione, spiegare quali sono le differenze con altri prodotti e quali vantaggi comporta il fatto di utilizzare quello autentico. Stiamo attenti a non banalizzare il nostro marchio: non va bene se tutto quello che si trova in giro viene riconosciuto come prosciutto di Parma. Analizziamo caso per caso ed eventualmente si passa anche per vie legali”.
Questo fenomeno potrebbe subire un rallentamento con il riconoscimento della cucina italiana come patrimonio immateriale dell’UNESCO?
“Non è una singola cosa che può cambiare questa situazione. C’è bisogno dello sforzo e del lavoro di tutti per far capire la differenza fra il prodotto autentico e quello che semplicemente mette su una bandierina con un nome italiano. Sicuramente iniziative come quella dell’entrata nell’UNESCO aiutano, soprattutto se fanno parte di un insieme di un progetto.
In questo contesto storico complesso che stiamo vivendo, ha visto dei cambiamenti nell’approccio al mercato?
“È iniziato tutto con il COVID. Con lo smart working le persone lavoravano in altri posti: si sono sviluppati altri mercati e abbiamo perso altre zone ancora perché negli uffici erano vuoti. Nei centri urbani si è sviluppato soprattutto il prodotto preconfezionato, che è anche quello che ha sofferto di più con l’inizio della guerra in Ucraina e il picco di inflazione. Dopo la pandemia, quando i ristoranti hanno ricominciato ad aprire, siamo tornati alle origini rivalorizzando quel rapporto. Infatti, sono stati proprio i ristoratori a portare il prosciutto di Parma negli Stati Uniti per la prima volta, che si è poi allargato ai deli etnici fino ad arrivare ai grandi retailer come Whole Foods. Adesso i ristoratori sono di nuovo la nostra punta, non solo italiani, ma anche americani che offrono prodotti Made in Italy di qualità. Posso dire che adesso sono sopravvissuti i più forti, quelli che hanno grande capacità di adattarsi e quelli organizzati meglio, che è anche uno degli aspetti positivi. E poi si dà molta più importanza al modo di interfacciarsi con i clienti: molti si sviluppano attraverso riunioni virtuali, ma il contatto umano ha un altro valore e le nostre aziende apprezzano quando le andiamo a visitare. Nel corso degli anni abbiamo visto che esserci sempre trasmette un senso di fiducia. Quindi è importante anche essere consistenti. La carta vincente è avere una visione chiara a lungo periodo”.
E cosa avete in programma per il futuro?
“Parlando del mercato americano, è diventato il numero uno e diventerà per noi sempre più importante. Ci sono molte potenzialità di sviluppo, con continuità dei nostri investimenti. La strategia è basata sulla penetrazione nelle nuove aree – prima eravamo concentrati solo nelle due coste. La prospettiva è evolversi nei territori ancora inesplorati, dove c’è ancora tanto da fare. Poi punteremo sulla ristorazione, che non è solo una fase ma è tornata a essere un canale strategico”.