
Le strade sono deserte, le porte delle case sbarrate, le panchine vuote, le saracinesche chiuse. I rovi hanno invaso i terreni, impadronendosi di vecchi orti e giardini, e i gatti gironzolano da un vicolo all’altro. È questa la visuale più comune per chiunque si imbatta, per caso o per desiderio, a visitare uno dei tanti paesi semi abbandonati di cui l’Italia è disseminata, specialmente al Sud. Places left behind: i tratta di quei paesi e quei territori non agganciati a sistemi produttivi, che mancano di infrastrutture e di servizi, in cui si sono allentate le maglie economiche che trattenevano gli abitanti. Silenzio, abbandono, disincanto potrebbero sembrare gli unici compagni quotidiani di chi in tali luoghi ha deciso di restare, nonostante le difficoltà, eppure talvolta accade che in questi microcosmi qualcosa si muova pian piano, e prenda una strada diversa da quella della desolazione.
Frattura è un paese di poco meno di trenta abitanti, che in estate e durante le festività raddoppiano. Abbarbicato su un’altura, a 1260 metri sul livello del mare, deve il suo nome ad una spaccatura generatasi in epoca preistorica sul Monte Genzana, a seguito di un terremoto. Frazione del ben più celebre borgo di Scanno in provincia de L’Aquila, nel cuore dell’Abruzzo interno, Frattura è il luogo in cui l’archeo-antropologa Anna Rizzo è giunta nel 2010, grazie a una missione archeologica dell’Università di Bologna e, a partire da quel momento non l’ha più abbandonata.

«La nostra equipe – racconta Anna – ha preso parte ad una missione fortemente voluta e diretta da Francesca Romana Del Fattore, archeologa protostorica, legata all’Abruzzo da un grande amore. Appena arrivati, anche con gli altri studiosi, dovevamo svolgere delle ricognizioni estensive nella zona per implementare la Carta Archeologia del territorio. Si trattava, almeno inizialmente, di una missione archeologica e Frattura era soltanto il luogo in cui alloggiavamo. Uscivamo alle sette del mattino per andare sullo scavo e tornavamo nel tardo pomeriggio dove ci aspettava il laboratorio per la pulitura dei reperti. Cenavamo e poi andavamo a letto stanchissimi. Mi trovavo lì ma non conoscevo il paese e i suoi abitanti, e quando chiedevo informazioni nel comune limitrofo, mi invitavano ad andare ad alloggiare lì a Scanno, perché per loro a Frattura non c’era niente e non valeva la pena nemmeno restarci a dormire. Dopo due anni di ricognizioni, scavo e qualche contatto, ho iniziato a capire qualcosa in più e ho conosciuto un paese con una storia ricca e piena di curiosità, che andava riscoperta e così ho iniziato a occuparmi di Frattura da un altro punto di vista, finalizzato al recupero della comunità».

È stato dunque l’occhio esterno di una studiosa siciliana, capitata quasi per caso tra le montagne abruzzesi, a ridare nuovo impulso vitale ad un borgo rurale, prettamente agricolo e pastorale. «Gli uomini che abitavano qui anche in un passato meno recente – spiega Anna – erano “migranti per professione”, cioè si spostavano stagionalmente per andare in Puglia al seguito della transumanza o per derattizzare le masserie. Quella di Frattura era un’economia locale che si basava prevalentemente sul baratto e sugli scambi tra paesi della zona. Poi il 13 gennaio del 1915, il terremoto della Marsica chiuse un’epoca. Frattura fu completamente distrutta e ricostruita a poca distanza dal vecchio centro abitato, di cui si conservano ancora i ruderi. Il paese però fu decimato, ci furono più di cento vittime. La costruzione del nuovo insediamento segnò profondamente la comunità, gli uomini sopravvissuti emigrarono, altri partirono per la guerra e così in pochi anni, Frattura divenne un paese di sole donne. A tal proposito c’è un bellissimo documentario di Sergio Zavoli sulle donne di Frattura e sul fenomeno delle vedove bianche, nient’altro che mogli di quegli uomini partiti seguendo le catene migratorie aperte dai compaesani».
Uno svuotamento progressivo e senza sosta quello di Frattura, che ha portato conseguenze notevoli su vari fronti nel corso degli anni, e che ha prodotto nei pochi abitanti rimasti, una desertificazione interiore, in termini di speranze e fiducia nel futuro.

«A Frattura ora i residenti sono poco più di venti- racconta Anna, camminando tra le strade del paese- chi vi abita ancora oggi sa che qui non ci sono negozi, solo un piccolo bar che ha funzione sociale e una trattoria, sa che per fare la spesa bisogna andare nei centri limitrofi maggiori, sa che l’ospedale più vicino è a trenta chilometri di distanza e sa anche che la neve in paese inizia ad arrivare già in autunno, e che si può restare bloccati per giorni; sa inoltre che durante l’estate è possibile imbattersi in qualche orso che vaga per il paese, insieme a lupi e cinghiali e sa persino che settembre è il mese dei cervi in amore, e il richiamo dei maschi per le femmine riecheggia per settimane. Ma comunque nonostante tutte le criticità intervenute nel passato e nel presente, dal terremoto all’isolamento, dall’emigrazione alle epidemie, dalla femminilizzazione alle guerre, gli abitanti di questo luogo resistono, non vanno via e chi si è trasferito altrove, continua a tornare».

Attivando il progetto di recupero di comunità, Frattura ha riscoperto se stessa e gli abitanti hanno ripreso confidenza con le proprie radici, la propria identità comune e tutti quei luoghi del paese che credevano ormai appartenenti ad un passato lontanissimo. Anna sostiene caparbiamente che, progetti come quello di Frattura, potrebbero essere svolti in tutte le aree interne italiane, tenendo conto chiaramente di tutte le peculiarità di ogni singolo paese e facendo sinergia anche con altre figure professionali, come economisti e ingegneri ambientali.
«Con questo progetto – spiega Anna- è stato possibile realizzare a Frattura eventi che comunemente avvengono in centri più grandi, ricchi e maggiormente collegati. Abbiamo realizzato una residenza artistica in paese con l’Accademia di Belle Arti di Roma, l’ “AIR*M Artist In Residency Mountain”, coordinata da Valentina Colella in collaborazione con la cattedra di Tecniche per la scultura del professore Vincenzo Varone dell’ateneo romano. Tre studenti hanno trascorso un periodo di lavoro in paese, traendo anche ispirazione dal luogo per la realizzazione delle loro opere. Quest’anno è stato organizzato anche un Festival di Comunità, chiamato “Estate a Frattura”, in occasione del quale sono giunti in paese artisti, giornalisti e scrittori provenienti da tutta la regione. Tutto con la partecipazione attiva degli abitanti».

Non solo arte o eventi culturali, ma anche percorsi di rivalorizzazione di prodotti agricoli locali, per potenziare le coltivazioni storicamente vitali e rendere gli abitanti consapevoli delle proprie risorse territoriali. «A settembre, il mese in cui arrivammo in missione – racconta Anna – il paese veniva invaso dai fagioli. Fagioli stesi ovunque, per le strade, sui marciapiedi, dentro le case, sui letti, in piazza e sui tetti. Uno scenario divertentissimo che si ripeteva ogni anno. Ho indagato un po’ e sono venuta a sapere che da generazioni questo era uno dei prodotti locali più importanti, ma senza un’azione di consapevolezza e recupero, probabilmente nel giro di pochi anni tutto sarebbe andato perduto. Nel 2014 siamo saliti nell’Arca del Gusto di Slow Food per la Biodiversità: questo prestigioso riconoscimento ha dato alla comunità un maggiore senso di coesione e rafforzato l’identità locale legata alle produzioni in quota, ma soprattutto ha valorizzato il lavoro di chi per decenni ha conservato il seme e ha mantenuto i procedimenti produttivi invariati. Una grande opera di custodia che ha rilanciato la comunità agricola e che sta recuperando altre coltivazioni».
Così, tra un evento culturale e un progetto di rivalutazione agricola, a Frattura hanno ripreso vigore la condivisione e la collaborazione comunitaria e si sono sviluppate via via nuove idee, in modo del tutto naturale e autogestito. Sono stati ad esempio recuperati diversi spazi pubblici dismessi o in disuso, in un progetto di rigenerazione. Tra questi, hanno ripreso nuova vita i locali della Scuola (adibiti a museo, residenza artistica, residenza di studiosi della missione) quelli del Forno e il lavatoio.

«Certamente il progetto e le attività concretizzate in questi anni – aggiunge Anna- con il coinvolgimento in prima persona gli abitanti, hanno ridato un nuovo slancio al paese. Ho lavorato molto e sto lavorando ancora per ricostruire la comunità e i risultati sono buoni, ma ci sono voluti anni per iniziare a goderne. È chiaro che gli abitanti hanno reso possibile tutto ciò, sono la vera forza di questo luogo: tenaci, competenti, capaci di riconoscere le proprie criticità dando voce alle loro esigenze per trovare soluzioni».
Ma il modello Frattura non è così diffuso, e se certamente esistono altre realtà virtuose simili a quelle del piccolo borgo aquilano, nel resto dell’Italia non è dappertutto così. Sul rischio spopolamento non c’è, da parte delle istituzioni, l’attenzione preventiva che dovrebbe esserci: si interviene spesso tardi e maldestramente, oppure si assiste a vere e proprie operazioni strumentali. «Le aree interne – spiega Anna – sembrano essere uno dei nuovi domini del marketing territoriale. Il tema del ritorno nei luoghi abbandonati, rurali e montani sembra essere uno degli argomenti degli ultimi anni. In un impeto appassionato, giovani famiglie desiderano ritornare in campagna con nuovi progetti di ruralità. La proposta di trasferirsi è uno scontro di desideri perché le difficoltà oggettive in determinate aree non sono irrilevanti; si tratta spesso persone suggestionate dalla narrazione che si sta facendo delle aree marginali o fragili, ma le difficoltà oggettive sono tante, e soprattutto bisogna avere delle sicurezze economiche. So però che con una progettualità concreta e graduale, si può certamente fare qualcosa per i piccoli centri. Nessun miracolo, nessun progresso lampo: solo tanta dedizione, studio, presenza, ascolto, comprensione. Quanto a me, mi piacerebbe che esistessero i Borghi dell’Art. 9 della nostra Costituzione, nei quali mettere in pratica i valori costituzionali di equità, giustizia, accessibilità, accoglienza, partecipazione e inclusione. Solo la cultura e la conoscenza possono rendere possibile tutto questo».