L’itinerario che ha attraversato il cuore d’Italia e che vi abbiamo raccontato settimana scorsa, ora vira verso il mare: scendiamo fino ai confini del Lazio con la Campania per toccare il promontorio del Circeo, parco nazionale dal 1934 e abitato già dalla preistoria. Una perla verde carica di leggende collegate alla grande letteratura antica, Odissea, Eneide, Metamorfosi, all’ombra dell’ammaliante Circe. I siti omerici, riletti alla luce delle migrazioni greche attraverso il Mediterrano, trovano una loro contestualizzazione storica; ecco allora che l’isola di Eea, dimora della maga, – ove approda Ulisse coi compagni erranti – va a coincidere, secondo la versione più accreditata, con il promontorio laziale, un tempo penisola e forse isola. Oggi, a 540 metri di altezza, sul punto più alto, si ammira la cosiddetta Ara di Circe, una piattaforma identificata come un santuario ad ella dedicato.
I marmi di Tiberio – Poco più di mezz’ora ed eccoci a Sperlonga, tra i borghi più belli d’Italia, come già se ne era avveduto Tiberio, che qui fece realizzare nel 14 d.C. una villa famosa per comprendere una grotta, adattata a sorta di teatro/museo naturale, con magnifiche sculture sul ciclo omerico di Ulisse, che venivano illuminate da torce rette da schiavi, scenograficamente, mentre venivano letti brani di poesia all’imperatore e ai suoi ospiti. Quando una frana gli fece rischiare la pelle, Tiberio decise di cambiare sede per il suo otium e scelse la non meno amena Capri. Il Museo archeologico annesso all’area della villa accoglie i rinvenimenti – frammenti pazientemente ricomposti – a partire dal 1957; i gruppi marmorei in cui sono stati finora identificati quattro episodi dell’epos sono l’assalto di Scilla alla nave di Ulisse, l’accecamento del ciclope Polifemo, il ratto del Palladio e Ulisse che solleva il cadavere di Achille, probabilmente opera di tre famosi artisti rodii, Atenodoro, Agesandro, e Polidero, che firmarono anche il celebre Laooconte, oggi in Vaticano.
Gaeta, pizza e tiella – Avanti senza fretta, guardando il panorama, spettacolare: dopo venti minuti spuntano, una dietro l’altra, Gaeta e Formia.

Bellissima e ordinata Gaeta, che – dopo la Bandiera Blu per i migliori tratti di mare e la Bandiera Verde per le spiagge a misura di bambino – ha appena conquistato anche la Spiga Verde, che premia l’attenzione al territorio. Dominata dalla fortezza che sopra è castello aragonese, sotto è edificio difensivo adibito a carcere militare nello scorso secolo, la cittadina, oltre alle testimonianze che raccontano la sua lunga storia, si distingue anche per alcune particolarità gastronomiche, a cominciare dalla tiella, una sorta di focaccia fatta con due dischi di sfoglia di pizza farciti di prodotti di terra, di mare, o entrambi: un piatto unico e sostanzioso, che nutriva contadini e pescatori e si conservava per alcuni giorni. Poiché il re Ferdinando IV di Borbone ne era ghiotto, da pasto popolare divenne ricercato anche per le tavole aristocratiche, differenziandosi però negli ingredienti, più pregiati (baccalà, sarde o alici per i poveracci, calamaretti per i ricconi). Rinomate le olive, già descritte da Virgilio nell’Eneide, da cui si ricava ottimo olio, nonché un aperitivo perfettamente mediterraneo, gustate in salamoia.
Dulcis (si fa per dire) in fundo, a Gaeta, nel “Codex diplomaticus cajetanus”, documento del 997 compiato nell’abbazia di Montecassino, si conserva la più antica testimonianza della pizza (bianca: per il pomodoro bisogna attendere il ritorno di Colombo dalle Americhe), citata come pagamento dell’affitto di un mulino, insieme a “spatula de porco, lumbum e pulli”. Ah: per la cronaca, le pizze erano duodecim, dodici. Sulla limitrofa Formia aleggia lo spettro di Cicerone, che pagò care le sue “Filippiche” contro il triumviro Antonio: quest’ultimo lo inserì nelle liste di proscrizione; come dire, lo condannò a morte. L’illustre avvocato e oratore lasciò allora Roma e si ritirò nella sua villa qui; fu però intercettato dai sicari e, accortosi del loro sopraggiungere, non tentò di difendersi, ma, rassegnato, sporse il capo dalla lettiga su cui viaggiava e venne decapitato. Livio tramanda che, una volta ucciso, in un eccesso di stolida crudeltà, gli furono tagliate anche le mani con cui aveva scritto le critiche ad Antonio.
Highway to Hell – Abbiamo consigliato di saltare a piè pari Napoli, in questo girovagare un po’ alternativo: la città di Pulcinella è “troppa roba”, impossibile farne una tappa puntaspilli. Più razionale dare un’occhiata prima – Pozzuoli – e molte dopo, con giro in costiera, tappa a Salerno, viaggio nel tempo a Paestum e conclusione sotto lo sguardo vigile del Cristo di Maratea. Presso Pozzuoli si transita su un tratto di selciato romano, lasciato a bella vista sotto l’Arco felice vecchio, porta romana per accedere a Cuma, tra tutte le colonie della Magna Grecia una delle più antiche e più lontane dalla madrepatria, fondata prima del 740 a.C.; poco distante si getta lo sguardo nell’oscuro lago d’Averno. Gli uccelli che lo sorvolavano, cadevano morti per le esalazioni sulfuree e dalle sue profondità si accedeva all’Oltretomba: queste le mitologiche costruzioni, sulla base dell’effettiva natura vulcanica del bacino e della zona, i Campi Flegrei. Da qui il poeta Virgilio fa discendere agli Inferi il suo Enea e sempre qui incrociamo nuovamente traccia di una Sibilla, quella cumana.

Il fiordo di Furore – Per arrivare a Salerno, scegliamo la via più lunga (e trafficata, va precisato), per il suo splendore: la costiera che congiunge Castellammare di Stabia, Vico Equense, Sorrento, Positano, Amalfi, Vietri, ovvero la penisola sorrentina, patrimonio Unesco nel tratto a Sud. Uno degli scorci più spettacolari si apre all’altezza di Furore, micro-borgo marinaro su un fiordo che fu utilizzato come set cinematografico da Roberto Rossellini; mentre girava L’Amore, nel ’48, con Anna Magnani, sua compagna all’epoca, cominciarono ad arrivare le prime lettere di Ingrid Bergman, che chiedeva un incontro col regista. Tempo un anno e Ingrid prese il posto di Anna. Oggi a Villa della Storta, parte dell’Ecomuseo del Mare, è ospitato un museo permanente dedicato all’attrice italiana e a Roma, fino al prossimo 22 ottobre, le è dedicata una mostra fotografica al Vittoriano.
Un aperitivo a Salerno – Di origine greca, poi colonia romana e punto di riferimento per il Sud sotto i Longobardi, Salerno divenne sede della celebre Scuola Medica, la più antica istituzione di tal scienza dell’Occidente europeo. Leggenda vuole che la scuola sia stata fondata da quattro maestri, l’ebreo Helinus, il greco Pontus, l’arabo Adela ed il latino Salernus, specchio della confluenza culturale altomedievale che qui trovò magnifica dimora, anche in versione femminile; ebbero un posto di rilievo anche le donne, infatti, come testimonia la figura di Trotula, ostetrica e levatrice, alla quale si attribuisce un trattato di ginecologia e ostetricia. Il primo documento in cui la scuola è citata come organizzazione istituzionalizzata si trova nelle costituzioni di Federico II, pubblicate a Melfi nel 1231: “(…)in futuro nessuno osi assumere il titolo di medico ed esercitare la professione medica se non supera l’esame della scuola pubblica di medicina dei maestri di Salerno e dispone di attestati scritti di fiducia e di perizia rilasciati da detti maestri (…)”, ma è attestata attività medica già dal X secolo. Città di mare ben tenuta, sfoggia un centro costellato di botteghe e piccoli bar che hanno saputo darsi una veste contemporanea, rispettando il contesto architettonico.

La casa degli dei – Quasi in dirittura d’arrivo… ma prima di posare i piedi a Maratea, imperdibile una sosta a Paestum, fondata da coloni greci provenienti da Sibari, in Calabria, verso il 600 a.C.; essi si stabilirono dapprima in una fortezza sul mare, attuale vicina Agropoli, ove costruirono un tempio per Poseidone e poi si spostarono nella pianura, dando vita a Poseidonia, che mutò nome in Paistom sotto i successivi dominatori Lucani e in Paestum con i Romani. Un sito, che porta indietro nel tempo, con imponenti templi che si stagliano nell’azzurro, vestigia di una città estesa e fiorente. E c’è chi ha la fortuna di condividere i confini con le possenti mura greche, come una masseria-caseificio dietro l’area archeologica, location strepitosa.
Cristo si è fermato a Maratea – Un viaggio attraverso l’Italia equivale ad un banchetto nuziale: le portate non finiscono mai, sono abbondanti e ghiotte. Da Paestum a Maratea c’è un centinaio di chilometri: se si vuol toccare mèta, meglio tirar dritto, evitando altre tentazioni, ad esempio la certosa di Padula, o di San Lorenzo, prima certosa sorta in Campania; con tre chiostri, un giardino, un cortile ed una chiesa, è uno dei più sontuosi complessi monumentali barocchi del sud Italia, nonché la più grande certosa a livello nazionale. Costruita a partire dal 1306 su una preesistente chiesa di S. Lorenzo, come per tutte le certose d’Italia, richiama l’immagine della graticola sulla quale il santo fu bruciato vivo. Nel Cinquecento il complesso divenne meta di pellegrini illustri, come Carlo V, che vi soggiornò con il suo esercito nel 1535 di ritorno dalla battaglia di Tunisi e, secondo la tradizione, per l’occasione i monaci prepararono una frittata di mille uova.

Cristo non si è fermato ad Eboli: è a Maratea e domina il paese dagli oltre 600 metri del colle San Biagio; alto 21,13 metri (secondo solo al Cristo Redentore di Rio de Janeiro, 38 metri), realizzato su idea dell’imprenditore biellese Stefano Rivetti – arrivato a Maratea nel ‘53 per avviare attività industriali – e completato nel 1965; si raggiunge tramite una strada panoramica che, agli ultimi tornanti, è pura vertigine. Sulla sommità, di fronte alla statua, sorge la basilica di San Biagio (che, a sua volta, sta sul sito di un tempio dedicato a Minerva), ove si conservano le reliquie del santo patrono, martirizzato nel 316 a Sebaste. Nel 732, parte dei suoi resti, deposti in un’urna di marmo, furono imbarcati per esser portati a Roma, ma una tempesta fermò la navigazione sulla costa di Maratea, dove i fedeli accolsero le reliquie. Il traguardo deve essere il mare e la cittadina offre splendide spiagge, tra cui cala Jannita, di sabbia nera, vulcanica, dove rilassarsi – complice consigliato un paniere di mozzarelle di Massa e vino di Brefaro – ammirando la prospiciente isola di Santo Janni, che fra le sue onde custodisce il più grande sito archeologico subacqueo di epoca romana del Mediterraneo.