L’immagine più surreale rimane quella di un’esile vigilessa, dallo sguardo severo e dalla divisa impeccabile, che su una pedana alla confluenza di due stradoni si sforzava di dirigere un traffico inesistente.
Non passava nessun veicolo e nessun pedone, ma la zelante ragazza continuava a sbracciarsi a vuoto, con movimenti regolari, quasi marziali, per distribuire i segnali di via libera. Due minuti con il braccio e il volto protesi verso destra e, dopo un rapido dietrofront, altri due minuti verso sinistra. E così via, per un numero imprecisato di ore. Un esercizio di rigida disciplina militare al servizio di una ferrea ideologia che agli occhi smaliziati di un occidentale poteva sembrare una gag alla Buster Keaton.

Anche all’epoca la Corea del Nord era governata con il pugno di ferro da Kim Jong-il, figlio del patriarca della dinastia Kim il-sung e padre dell’attuale leader Kim Jong-un che proprio in questi giorni celebra il decennale del suo dominio. Immersa in un mondo chiuso e austero.
Afflitta da una cronica povertà, appariva però lontana dall’estetica pittoresca e dalla vitalità caotica del terzo mondo. Addirittura, asettica nel decoro formale e intimidente dei palazzoni del potere e nell’eleganza un po’ funerea di una metropolitana che aveva poco da invidiare alla maestosità di quella di Mosca. Con un popolo riservato, o forse impaurito, per nulla propenso ad aprirsi con gli stranieri.
Costumi di vita quasi alieni, distaccati, diametralmente opposti a quelli convulsi delle nostre città. Che, a giudicare dalle più recenti testimonianze, ancora resistono agli sviluppi della modernità appena scalfiti da minuscoli ritocchi cosmetici. Ma oggi ancor più rattrappiti in una bolla di isolamento accentuato dalla pandemia (Kim Jong-um ha chiuso le frontiere) che allarga le distanze dal resto del mondo.
Pyongyang, estate del 2007. Mi ero infilato un po’ avventurosamente in una missione diplomatica italiana in Corea del Nord guidata dal sottosegretario agli Esteri Margherita Boniver. Dopo rapide escursioni a Hong Kong e Seul il viaggio prevedeva una tappa di sole 24 ore a Pyongyang. Un tempo brevissimo, ma comunque un’occasione imperdibile per gettare uno sguardo sia pur fugace sul più impenetrabile paese del pianeta. L’aura di mistero era già comparsa a Roma, nella sede alll’Eur dell’ambasciata nordcoreana, alla vigilia della partenza: visto concesso solo a mezzanotte, cinque ore prima del decollo, dopo un quasi spionistico vaglio delle referenze del cronista.
All’arrivo nel primo pomeriggio a Pyongyang, su una pista del tutto deserta, un solerte funzionario intimava un aut aut in incerto inglese. Essendo all’epoca proibito in Corea del Nord l’uso del cellulare (per via di un ordigno attivato dai tasti di un telefonino su un treno in cui viaggiava il dittatore) si doveva scegliere se darlo temporaneamente in consegna alle autorità doganali o lasciarlo a bordo dell’aereo di Stato in una busta sigillata.

Rapido, in una città con pochissime macchine perlopiù governative, il trasferimento verso il centro. Breve sosta in un albergo abbastanza confortevole, dal decor asiatico, da dove per telefonare all’esterno occorreva passare per un centralino che registrava anche i sospiri. Ossessivo, ai confini con la paranoia, il marcamento a uomo. Due funzionari, che riuscivano a esprimersi in un rudimentale italiano, per ogni membro della delegazione. Bloccate le evasioni dal gregge per impedire i contatti con la gente. Proprio dirimpetto all’hotel si ergeva l’edificio della stazione centrale. Scontata l’attrazione del visitatore verso un palcoscenico così rappresentativo della vita quotidiana. Ma immediatamente scoraggiata. No, troppo pericoloso attraversare la strada.
Viaggio protocollare ai confini con la Corea del Sud, nella zona demilitarizzata al cui centro sorge una baracca dove per decenni i funzionari dei due paesi formalmente in guerra hanno tentato di raggiungere un compromesso quasi sempre frustrato dagli imprevedibili sussulti degli eventi internazionali. Veloce digressione nelle aree speciali di sviluppo che sul modello cinese avrebbero dovuto dare ossigeno all’economia asfittica del paese. Ritorno su un’autostrada assolutamente vuota sul cui asfalto avrebbe potuto atterrare in totale sicurezza un jumbo jet. Fugaci scorci su campagne aride, disseccate, coltivate con strumenti ancora arcaici. E su villaggi semispopolati, condannati alla depressione.

Banchetto dell’amicizia la sera in albergo. Ottimo cibo e abbondanti libagioni. Con grandi inni all’amicizia italo-nordcoreana e auspici di rapporti bilaterali sempre più fruttuosi, secondo i codici sempre un po’ ipocriti delle relazioni diplomatiche. Serata libera: di gironzolare in albergo dove anche qui, come in quasi tutti gli hotel asiatici, ci si poteva svagare con il karaoke. Ma il cronista aveva ben altre curiosità. E quando verso le undici di sera gli angeli custodi – distrutti dalla stanchezza e convinti che l’ospite si sarebbe ritirato disciplinatamente in camera – cominciarono ad assopirsi sui divani della hall, l’evasione fu possibile grazie al soccorso dell’auto di un’antenna diplomatica italiana con cui si era concordato fin dall’aeroporto l’abboccamento clandestino.
Puntammo verso la periferia di Pyongyang e si aprì un altro mondo. Le strade non erano brulicanti, ma qua e là si intravvedevano capannelli di gente uscita di casa per sfuggire al caldo e intenta come in qualsiasi altra città del mondo a chiacchierare del più e del meno. La meta era un tempio della dolce vita cinese: un grande albergo, dotato di un casinò e di un bordello, frequentato da turisti giunti dalla Cina che non avevano bisogno del visto per entrare in Corea del Nord. Molto affollato il salone dei giochi. Apparentemente senza clienti (almeno in attesa) il lussuoso lupanare che esponeva in un esplicito cartello il prezzo di ingresso: 132 euro (non dollari) per un’ora di sesso con una prostituta cinese. Ma perché una cifra così poco rotonda? Ci fu spiegato che per i nordcoreani la precisione prescinde dai numeri pieni. Esempio: a Pyongyang non era stravagante fissare un appuntamento per le 13,31.
L’escursione non autorizzata proseguì a notte fonda con la visita ai monumenti della gloria comunista. La gigantesca statua di Kim il-Sung, sorta di tempio votivo dove masse devote accorrono ogni giorno ad omaggiare la venerata icona. La torre dello Juche, monumento all’ideologia del patriottismo e dell’autosufficienza al centro di un quartiere di edifici metafisici che un po’ richiamano l’architettura razionalista dell’Eur.

Ritorno in albergo alle prime luci, con le colonne dei lavoratori già richiamati al dovere dagli altoparlanti delle camionette di regime (in stile “grande Fratello”). Incamminati in silenzio verso gli uffici e le fabbriche. Ci si sveglia all’alba a Pyongyang. E per evitare divagazioni notturne, contrarie all’etica di Stato, le trasmissioni televisive dell’unico canale (almeno a quei tempi) venivano interrotte alle dieci di sera. Con l’eccezione del week end, quando per favorire la ricreazione del popolo i canali in attività diventavano tre. Uno di questi, la domenica, trasmetteva le partite del campionato di calcio italiano. Ma quello di sei anni prima. Nel 2001 lo scudetto l’aveva vinto la Roma. Se in Corea del Nord ci fosse stato il Totocalcio un italiano a Pyongyang si sarebbe facilmente arricchito. L’arco di ritardo era decisamente esagerato, ma non insolito se si considera che la notizia ufficiale del crollo delle due Torri (che ovviamente circolava sotto traccia) era stata data dalla Tv di Stato dopo circa un mese, a conclusione di accesi dibattiti in seno al comitato centrale.
A metà mattina visita scortata dalle guardie del corpo alla sede del Parlamento dove apprendemmo che si riuniva solo una volta l’anno per ratificare le decisioni insindacabili del dittatore. E puntata alla stazione principale della metropolitana dove venne svuotato un vagone per impedire che nel breve tragitto che ci era stato riservato venissimo in contatto con il popolo. Limitatissimi gli spostamenti a piedi. Giusto il tempo di intuire che in pieno centro non esistevano insegne di ristoranti e i pochi negozi esponevano in vetrina mercanzie dozzinali per gli standard occidentali.
Ultima tappa, prima di raggiungere l’aeroporto per il ritorno, lo stadio monumentale di Pyongyang circondato da un grande parco. Dove ci fu servita una speziatissima colazione al sacco. A distanza di una ventina di metri schiamazzava una scolaresca. Qualche ragazzino, incuriosito dai nostri apparati (macchine fotografiche e telecamere) ai loro occhi fantascientifici, cercò di raggiungerci, ma fu trattenuto dagli addetti alla sicurezza. Il più scaltro aggirò l’ostacolo, ci piombò addosso, comincio a gingillarsi coi balocchi della tecnologia, azzardò perfino qualche incomprensibile domanda nel suo idioma. La diga era crollata. Le guardie del corpo incrociarono rassegnate le braccia. L’intera scolaresca si unì a noi, inclusi i maestri. Il viaggio a Pyongyang si concluse così in un clima da allegra scampagnata. Fra gesti di reciproca simpatia di mondi così estranei. Ma per l’occasione contaminati a vicenda dall’innocenza dei bambini che non conosce i veti e i diaframmi delle ideologie.