Dieci chilometri di strada tortuosa, incassata fra le gole, senza però il supplizio delle buche e le trappole del fango. Il disordine sgangherato di Kabul era alle spalle ma nei tentacoli delle estreme periferie, fra la selva delle parabole televisive e l’atmosfera convulsa dei mercatini improvvisati, resisteva un ancoraggio alla contemporaneità. Ad un bivio, quasi svogliatamente segnalato da un cartello pendulo e sbiadito, si svoltava a sinistra ed era subito Medio Evo. La carreggiata si restringeva e l’asfalto si sbriciolava.
Il tratturo si inerpicava verso l’alta montagna fendendo villaggi assopiti nella notte dei tempi. Nelle campagne l’apparizione eccezionale di un aratro destava la sorpresa della presenza di una Ferrari. I contadini lavoravano ancora di vanga, rastrello e forcone. Gli sguardi delle donne che sostavano fuori delle casupole di legno impastate di precarietà e di miseria erano immoti e indecifrabili. Non ostili. Più che altro indifferenti allo sgommare del fuoristrada che ci trasportava e che non veniva neanche registrato dai radar di esistenze assorbite dalle esigenze più elementari.
Da qualche spaccio cavernoso fuorusciva un odore acuto di spezie e la sensazione di incuria con cui venivano accatastati alla rinfusa i generi di prima necessità. Il proprietario di un baracchino che ci allungò una tazza di tè non rispondeva alle nostre curiosità trasmessegli dall’autista che fungeva anche da guida e da interprete. Si limitava a sorridere stentatamente e a ripetere come un mantra l’equivalente in lingua pashtun di “Insciallah”.
Era l’Afghanistan rurale del primo decennio del Duemila. Un anno dopo la cacciata dei talebani dal potere, seguita al crollo delle due Torri. Una terra straziata per secoli, ma stupefacente nella varietà delle bellezze naturali, che attraversammo per raggiungere Bamiyan. La città in cui nel marzo del 2001 i talebani demolirono le due gigantesche statue dei Buddha che testimoniavano i fasti di antiche civiltà provocando l’esecrazione del mondo civilizzato.
Un mondo alieno. Era netta la sensazione di essere precipitati indietro nei secoli, come Benigni e Troisi nel film “Non ci resta che piangere”. Nello stupore dell’estraneità non c’era però percezione di pericolo. La nostra urgenza di indagine e la faticosa sopravvivenza di chi incrociavamo erano rette parallele, sfalsate nel tempo, destinate a non incontrarsi. Non c’erano posti di blocco né rischi di agguati. Era un Afghanistan provvisoriamente pacificato dalla tutela degli americani che avevano costretto i talebani a ripiegare nelle ridotte meridionali popolate dai pashtun (la loro etnia dominante) e, oltre, a trovar rifugio intorno alle ospitali scuole coraniche del Pakistan.
Non c’era traccia di tensione nel volto dello spericolato driver. Qui, a Nord Ovest di Kabul, era terra di hazara, una minoranza di origine mongola e di fede sciita. Perseguitata dagli intransigenti custodi dell’integralismo sunnita e sospinta alle emigrazioni di massa verso il vicino Iran. Non si avvertiva né l’impulso del dominio né il desiderio di rivalsa. Aleggiava solo un senso di sollievo per il temporaneo ritorno alla normalità.
La linea dell’orizzonte era frantumata dalle creste di montagne sempre più alte, più desolate e più arcane che nella catena dell’Hindu Kush superano i seimila metri. Ma lungo la cinta dei colli sottostanti lo scenario si addolciva in una sequenza di valli verdeggianti, torrenti impetuosi, laghi incontaminati che negli anni Sessanta rappresentavano il piccolo paradiso in terra delle colonie hippies attratte dalla malia della natura primordiale. I colori venivano spalmati dal gioco delle nuvole alternando tutte le sfumature dell’arcobaleno. Era un viaggio attraverso gli albori ancora quasi intatti di un universo che si sottraeva all’omologazione della modernità.

Ed ecco Bamiyan, annunciata dalle rovine di un’antica fortezza che aveva resistito alle razzie di Tamerlano. Cinque ore di percorso avventuroso per 240 chilometri contro le due di oggi rese agevoli dalla nuova strada costruita con capitali occidentali. Lungo i costoni di roccia che dominano la vallata, oltre i 2500 metri di altezza, una interminabile teoria di grotte rendeva testimonianza dei caravanserragli di fortuna e degli oltre cento monasteri dove nel corso dei secoli si erano avvicendati migliaia di monaci. Il buddismo fu trapiantato in queste lande intorno al terzo secolo dopo Cristo dalle colonie di pellegrini trasmigrati dal Nepal durante la dominazione dell’impero dei Kushan (una fusione di tribù indoeuropee che costituiranno più tardi le fondamenta dell’etnia pashtun).
All’epoca le gigantesche nicchie cesellate nella roccia in cui rispettivamente si stagliavano le due statue demolite dei Buddha (la più alta del pianeta in onore di quella divinità, 53 metri, risaliva a 1500 anni prima; l’altra, 35 metri, addirittura a 1800) figuravano come occhiaie vuote da cui spuntavano qua e là brandelli di arenaria sopravvissuti ai bombardamenti aerei e alle cariche di dinamite che devastarono anche gli affreschi rupestri. Ombre più che reperti dei colossali monumenti di scuola Gandhara (punto di incontro fra l’arte greca esportata da Alessandro Magno e quella indiana). Un oltraggio alla creatività e all’umanità che il mullah Omar, allora leader assoluto dei talebani, giustificò con il pretesto dell’indignazione per i capitali che l’Occidente voleva concentrare in quelle aree sulla salvaguardia di tradizioni estranee all’Islam anziché sulla lotta alla miseria ancestrale. I lavori di recupero erano già in corso, con fondi giapponesi e sotto l’egida dell’Unesco che aveva proclamato Bamiyan “patrimonio dell’umanità”.
L’équipe di tecnici internazionali incaricata della complicata ricostruzione manifestava un ottimismo in seguito frustrato dalle difficoltà del restauro e dal successivo distacco dell’Unesco che smise presto di considerare prioritarie le operazioni di recupero.
La cittadina era un agglomerato di baracche montane raccolto intorno alla moschea e al bazar. In un’aria sonnolenta le bancarelle esponevano prodotti agricoli di stagione, stoffe multicolori, paccottiglia low cost di vario genere. Il recinto era animato più dalle chiacchiere oziose che dagli affari. Appartata, verso la valle, sorgeva l’unica, spartana, locanda. Con annesso refettorio. La pesantissima cena, servita ad orari per noi ospedalieri (fra le sei e le sette di sera), era a base esclusiva di montone. I signorotti del luogo si concedevano botte di vita mangiando distesi su alcuni sofà adagiati a mo’ di triclini su pianali di legno lungo la muratura.
Il più estroverso, nel dopocena, cercò di convincermi che Bamiyan era avviata a un grande futuro. Sarebbe risorta come sempre in passato (era resuscitata nel Tredicesimo secolo perfino dopo i saccheggi di Gengis Khan). In quel luogo unico, crocevia oltre tutto strategico fra Oriente e Occidente, non poteva che esplodere il turismo. Previsione azzeccata solo in parte. Con lo sviluppo dei collegamenti (oggi c’è anche un piccolo aeroporto) la valle dei Buddha distrutti nell’ultimo ventennio ha calamitato un flusso ridotto di visitatori. Nell’entusiasmo della rinascita era esclusa ovviamente l’ipotesi che le lancette della storia potessero tornare all’era dei talebani.
Con il calar del sole primaverile si spegneva anche la vita. Tentai un frugale ritorno alle funzionalità del mondo occidentale accendendo il telefono satellitare. Ma le batterie erano scariche e non c’era modo di alimentarle. Rientrai nello stanzone (che occupavo da solo) arredato con sei letti, una poltrona sfasciata, un paio di stampelle per i panni attaccate a un chiodo, una lampadina che pendeva dal soffitto tristemente appesa a un filo. Estrassi da una sacca un libro e sprofondando nella poltrona mi accinsi alla lettura. Ma alle otto in punto andò via la luce elettrica e non tornò più per tutta la notte. Avvertii di nuovo il brivido del Medio Evo che oggi minaccia di riaffacciarsi. Per sottrarmi al senso crescente di oppressione scelsi uno dei giacigli e mi seppellii sotto una catasta di coperte (di notte la temperatura può scendere anche fino a 20 gradi sotto zero) cercando rifugio nella comfort zone di Morfeo.