Il mondo bucolico delle Georgiche di Virgilio e del De Rerum Natura di Lucrezio, i cui versi ci trasmettono un brivido di emozione e la consapevolezza di partecipare al grande miracolo della natura, si è tramandato nella cultura di ognuno di noi. D’altra parte, gli affreschi romani della Farnesina o della casa di Livia a Prima Porta, altro non mostrano che splendidi giardini ornamentali, perfettamente ordinati, a riprova che già in quell’epoca esistevano veri e propri “orti botanici”.
La scoperta di Pompei, sepolta per secoli sotto le ceneri del Vesuvio, ha rivelato, come in una fotografia del passato, una civiltà sorpresa da un evento unico e imponderabile che l’eruzione del 79 d.C. ha fissato e fermato nel tempo. I giardini raffigurati in trompe-l’oeil nei suoi affreschi ad encausto testimoniano che nel patio ogni casa aveva il suo “hortus”.

Quando nel 1746 venne alla luce la città vesuviana, tutta l’Europa colta ebbe un sussulto “neoclassico”: già Winckelmann e Piranesi ne avevano intuito e avviato la moda nel gusto per l’antico ma ormai, con l’evento della scoperta di Pompei, era inevitabile che si mettesse in moto il flusso del Grand Tour, quel viaggio culturale che tutti gli spiriti eletti d’Europa del XVIII secolo intrapresero verso l’Italia, inebriati, per visitare i luoghi della classicità e per osservare da vicino, dopo averli ammirati nella grande pittura, il fascino e la suggestione dei suoi paesaggi ideali.
I pittori che scesero in Italia esaltati dalla bellezza della sua luce e dei suoi paesaggi arcadici, Hackert, Ducros, Houel, dipinsero quello che “vedevano” con una tale oggettività da superare addirittura la perfezione della stessa macchina fotografica e, se non altro, con una tale passione da creare un virtuosismo tecnico irraggiungibile e forse irripetibile. La fotografia arrivò di fatto più tardi, quando il Grand Tour cominciava ad esaurire la sua linfa e lasciando che il gusto neoclassico diventasse romantico ma se la fotografia fosse stata inventata un secolo prima, probabilmente non avremmo avuto le squisite pitture dei “vedutisti”.
Certamente la Sicilia per il suo clima temperato dovette essere stata prescelta per i più vari esperimenti botanici; probabilmente già dai Greci e certamente dagli Arabi, che dopo l’occupazione sperimentarono nuove colture e acclimatarono piante che nei loro aridi territori crescevano con difficoltà.

I Greci portarono in Sicilia piante utili come il finocchio, il cotogno, la cipolla, l’origano, il basilico e tutti gli alberi da frutto: il ciliegio, l’albicocco, il mandorlo, il prugno. Gli Arabi, oltre alle palme, il platano, l’olmo, il lauro, il cipresso, il pioppo e la quercia, prediligendo quindi le piante ornamentali. E i fiori: la rosa, il giglio, il giacinto, la viola. I giardini ornamentali siciliani erano veri e propri luoghi di delizia.
Ogni appezzamento di terra, dall’antichità fino a tempi relativamente recenti, comprendeva un vasto repertorio di piante, un frutteto, cereali e piante medicinali; la buona salute si otteneva con la sana alimentazione e le malattie si curavano solo con le erbe che venivano coltivate nell’orto accanto agli ortaggi veri e propri, alla salvia, al basilico, al prezzemolo, al rosmarino. C’era la menta e la mentuccia, la malva per digerire, il papavero per dormire, l’ortica, la cicoria… È noto, inoltre, che l’istituzione degli orti botanici agli inizi del ʼ500 fu motivata, più che da finalità estetiche, da esigenze mediche, le stesse per cui anche in Sicilia furono fondati i cosiddetti “Orti dei semplici”.

Come è stato spesso notato, nessuna regione è stata tanto desiderata e contesa come la Sicilia che, per la posizione geografica nel bacino del Mediterraneo, fra il continente europeo e l’Africa, per clima e fertilità del suolo, ha a lungo rappresentato una importante terra di conquista.
Le diverse aree geografiche hanno vissuto avvenimenti diversi, il che ha comportato differenze sensibili nella storia, nelle tradizioni, negli stessi etimi dialettali fra le varie provincie dell’isola. Tutto ciò ha fatto della Sicilia una terra estremamente complessa dal punto di vista culturale, ricca di differenze che ne costituiscono sicuramente un punto di forza. L’isola a lungo è stata apprezzata per le sue bellezze naturali che fanno da sfondo, magico e insuperabile, agli antichi monumenti. Tutto conferma pienamente l’affermazione di Goethe che scrisse: “L’Italia senza la Sicilia non lascia alcuna immagine nello spirito nostro; quivi è la chiave di tutto”.

Il viaggio in Sicilia verso la fine del XVII secolo era una tappa fondamentale per i giovani di quel tempo perché completava la loro formazione culturale ed etica. Venire in Sicilia significava respirare i profumi della storia, delle leggende, la comune cultura dei popoli europei. L’Italia, l’Europa tutta avrebbero un’identità diversa senza la Sicilia, il più grande scrigno culturale e naturale dell’intero Mediterraneo, che oggi più che mai deve essere difeso e curato dai suoi figli spesso distratti.
Goethe, nel suo viaggio in Sicilia, prima dei luoghi della classicità, volle visitare il “granaio” d’Italia, l’interno assolato dell’isola con le sue infinite messi, il grano dorato inframmezzato dai delicati colori degli asfodeli dove immaginò i personaggi del mito e vide Cerere sul carro del Sole correre per i campi alla disperata ricerca della figlia Proserpina rapita da Plutone.

Oggi nuovi giovani Goethe possono ripercorrere i passi del poeta e fare una incredibile e inaspettata esperienza della Sicilia incontrando nel loro viaggio l’unicità tutta isolana delle piante della macchia mediterranea, i luoghi della memoria, della cultura, dell’arte, profondamente diversi dai non-luoghi in cui spesso viviamo, crogiolo di bellezze uniche al mondo.
Come le “terre del Biviere”, quel luogo in cui Ercole, figlio di Giove, di ritorno da una delle sue fatiche posò la pelle del vinto leone Nemeo e dalla quale nacque il Lacuus Erculeus, un lago che con il fertile giardino intorno divenne poi per gli Arabi il “biviere”, abbeveratoio delle greggi e pescoso vivaio. Oggi riportato a nuovo splendore con un giardino mediterraneo ricco di gelsomini, rose antiche, palme e altre rarità botaniche che giungono a sfidare la fama del meraviglioso Orto botanico di Palermo, il più grande e antico d’Europa.

Alle pendici dell’Etna c’è il giardino della Trinità. Nel 1382 il vulcano lo ricoprì di lava che nei secoli l’acqua piovana ha modellato creando piccole conche e percorsi d’acqua in cui è possibile osservare le gru abbeverarsi durante la migrazione verso sud, in un paesaggio di roverelle, uniche testimoni di quello che fu il vero grandioso bosco etneo. Sempre l’Etna maestoso custodisce il secolare Castagno dei Cento Cavalli che, secondo una leggenda, nel Medioevo accolse e protesse da un temporale una misteriosa regina di Sicilia e i suoi cento cavalieri.

Protagonista dell’iconografia dei viaggiatori e dei paesaggisti ottocenteschi del Grand Tour potrebbe essere l’albero più antico d’Italia con i suoi duemila e più anni, ma anche il più grande d’Europa, se si assume valida la circonferenza dei tre alberi insieme, di cinquanta metri, e l’altezza di ventidue.
Ma quanti sono e dove si trovano i grandi giganti siciliani, in alcuni casi plurimillenari testimoni della nostra storia, da proteggere e da ammirare come fossero monumenti per il loro valore storico e paesaggistico? I più noti sono diventati i simboli della natura e dei luoghi, come l’esotico Ficus di piazza Marina a Palermo, testimone del celebre omicidio di mafia del poliziotto Joe Petrosino.

A guardare l’inventario, redatto nel 2013 dagli esperti dell’Università di Palermo e Aziende Foreste demaniali, riferito a 430 individui censiti, i più numerosi sono gli ulivi pluricentenari: 350 esemplari di cui molti nel territorio palermitano e messinese tra Tusa, Pettineo e Caronia, ma anche nella Valle dei Templi di Agrigento e dintorni. Nel Giardino della Kolymbetra, ad esempio, si nasconde un raro boschetto di mirto, la pianta sacra alle divinità greche.

Sulle Madonie, così come nel bosco di Ficuzza, si trovano almeno duecento alberi centenari tra querce, frassini e roverelle, mentre sulle alture nel centro della Sicilia un centinaio tra carrubi, sughere e olivi centenari vivono in aree poco frequentate dal turismo, nel bosco di San Pietro, di Niscemi o nei dintorni di Caltagirone.
Una curiosità: il mandorlo più grande di Sicilia si trova a Milena, nel nisseno, con un’altezza di nove metri e la cui chioma di oltre 12 metri si ricopre di una spettacolare fioritura bianco-rosata; mentre il corbezzolo più antico vive nel parco della villa romana del Casale di Piazza Armerina, in provincia di Enna. È alto nove metri e ha 150 anni: raramente il corbezzolo, noto per i frutti dal contenuto alcolico e in siciliano detto ‘mbriacuni, raggiunge tali dimensioni.

Sono i parchi naturali dell’Etna, Madonie e Nebrodi i maggiori custodi del nostro patrimonio vegetale monumentale: antichissimo come formazione è il bosco di tassi a 1400 metri d’altitudine e su 30 ettari, la tassita delle Caronie, dove vivono i giganti velenosi, conosciuti come alberi della morte. Si chiamano così perché al loro interno viene prodotta una tossina che ha un effetto narcotizzante molto potente. Oltre due millenni fa il legno del tasso, particolarmente flessibile, longevo e resistente, era usato per costruire archi e frecce, scagliate contro gli animali nella caccia. Basta pensare a Shakespeare, al suo Amleto, il cui padre fu ucciso a causa di un liquido iniettatogli nell’orecchio e proprio a base della sostanza estratta dall’albero. Non lontano svettano gli aceri montani e i cerri solitari.

Cresce in un giardino privato, nel territorio di Milo, la ginestra più grande dell’Etna, alta almeno trenta metri.
Ma in base a quali parametri un albero si definisce monumentale? Non solo per le dimensioni del tronco e della chioma ma anche per età, forma, rarità botanica, importanza paesaggistica e storico-culturale, in quanto testimone di eventi e protagonista di miti e leggende.
A oggi di piante che rientrano nella categoria di monumentali in Sicilia ne conosciamo circa 1900, un numero che è sempre in crescita grazie alle segnalazioni dei cittadini. Nel territorio del Parco delle Madonie vive la roverella più grande d’Italia, in contrada vallone dell’Inferno a Castelbuono, alta 12 metri e con un’età stimata di mille anni. Si possono citare luoghi all’infinito perché la Sicilia, con i suoi giardini del mito, i parchi, il patrimonio di biodiversità, è una terra che merita sempre un viaggio.

Il tema della sensibilizzazione generale è fondamentale per tutelare questo straordinario patrimonio vivente. I giganti centenari sono minacciati costantemente dagli incendi e spesso dall’incuria dei terreni attorno, oltre che da malattie come il cancro o la carie. A prendersene cura, operazione molto delicata e complessa, sono a volte i privati quando ricadono nelle loro proprietà, oppure, con notevoli carenze di risorse, gli enti Parco, gli enti locali o le associazioni. Il rischio non è costituito tanto dai cambiamenti climatici, perché alberi che hanno raggiunto diverse centinaia d’anni hanno imparato ad adattarsi. La maggiore minaccia è piuttosto l’abbandono e le vicine specie invasive o non autoctone come pini o eucalipti, introdotti in Sicilia sino a trent’anni fa.
Ad eccezione di alcuni recenti interventi, manca un piano complessivo regionale di tutela. Nel frattempo, si possono ammirare e, perché no, anche abbracciare: si chiama “silvoterapia” e –provare per credere – cura mente e corpo. Perché occuparsi di “giardini” – non solo nei paesaggi idilliaci che ancora sopravvivono, ma anche in quelli contaminati dalla lebbra del cemento e dell’asfalto, da stili di vita consumistici e venali – significa anche occuparsi di se stessi, dei propri pensieri nelle soste all’ombra, nelle passeggiate tra profumi e colori.