La cosa che mi piace di più di New York sono le volte in cui ti trovi con un’amica nell’Upper East Side per un caffè nel primo pomeriggio e ti ritrovi, poi, la mattina dopo gettata sul divano della casa dell’amica dell’amica della tua ex collega in cui sei precariamente “appoggiata” da innumerevoli settimane, con ancora addosso un paio di jeans non tuoi e un nuovo tatuaggio sull’avambraccio, salvo poi scoprire quando arrivi in bagno che purtroppo o per fortuna, non si tratta di un vero tatuaggio. È solo una scritta a penna, Non ti fidar di me se il cuor ti manca, che scompare velocemente sotto al getto della doccia. Ciò che non scompare altrettanto velocemente sono i cerchi di mascara attorno agli occhi.
È così, ho 34 anni e ancora non ho imparato a struccarmi prima di andare a dormire. D’altronde nemmeno ho imparato a togliermi i jeans! Cosa ci sia di tanto figo nel ritrovarsi la mattina in uno stato così pietoso? C’è il perché e il come mi ci sono ridotta. C’è il gusto dell’imprevedibilità degli incontri e delle situazioni che solo New York regala in modo tanto amplificato. C’è che qui non mi sento mai sola e c’è sempre qualcosa o qualcuno che tiene accesa la mia curiosità, il mio entusiasmo.
E pensare che quando sono arrivata qui, qualche mese fa per “seguire” il mio ex compagno che si trasferiva per lavoro, la cosa che mi faceva più paura era la solitudine! A New York non conoscevo nessuno. Quando dico nessuno, intendo proprio nessuno. Ok, eccetto la cugina di un mio ex fidanzatino del liceo, ma non è che siamo mai state esattamente amiche e un’amicizia non si inventa dal niente solo perché ci si ritrova all’improvviso nello stesso continente. Insomma, non mi sono mai sentita così sola come in quei primi giorni a New York. Posso osare dire che non sapevo cosa fosse davvero la solitudine prima di trasferirmi qui col mio ex compagno. Non sto esagerando. Quando litigavamo, e purtroppo succedeva spesso, mi ritrovavo a girovagare senza meta in una città gelida che conoscevo pochissimo. Ogni volta che vedevo un gruppetto di amiche sedute a qualche bar, mi veniva da piangere. Mi mancavano tanto le mie, di amiche.
In condizioni normali, se litighi con il tuo fidanzato, esci, ti distrai un attimo e rientri a casa che non ti ricordi nemmeno più perché avevate discusso. In quelle condizioni invece, tutto assumeva toni tragici perché eravamo soltanto lui ed io. Io e lui. Lui ed io. Non conoscevamo mai nessuno. Lui amava passare le serate guardando repliche di Otto e mezzo e altri programmi italiani su Youtube, diceva per tenersi informato. Io in realtà, sentivo che non ci stavamo per niente tenendo informati su quello che avevamo attorno. Vivevamo in una specie di isolamento di coppia. Una coppia, tra l’altro, nemmeno particolarmente serena. Quando discutevamo, non solo non conoscevo nessuno con cui andare a bermi una birra per distrarmi un attimo, non potevo neanche, nella maggior parte dei casi, chiamare i miei amici di sempre, per questioni di fuso orario. È così che ho iniziato a trovare rifugio e conforto in posti come il MET, il Whitney Museum, e la Public Library, ma mi restava comunque addosso una sensazione di fondo di estrema solitudine e gelo.
Non mi rendevo conto di quanto fosse, invece, semplice e immediato a New York conoscere persone che spesso vengono da lontano e sanno cosa vuol dire arrivare qui e sentirsi completamente, totalmente soli. Insomma, scattano solidarietà pazzesche! Disarmanti! Sorprendenti! E soprattutto, davvero, un incontro porta a un altro incontro che porta a un altro ancora e piano piano ti si riaccende la speranza nelle relazioni umane. Proprio qui, in una città abitata da quasi 8 milioni e mezzo di persone e attraversata da un numero inimmaginabile di pendolari, turisti e persone occasionalmente di passaggio. Proprio qui, basta guardare con fiducia e curiosità all’Altro e difficilmente poi si resta delusi. Provare per credere!
Va bene, è venuto il momento di raccontarvi come ci sono finita sul divano di casa dell’amica dell’amica della mia ex collega con addosso dei jeans non miei e il tatuaggio/non tatuaggio sull’avambraccio.
Tutto ha avuto inizio prima dell’estate, grazie a un incontro davvero fortuito con due registi romani alla festa di compleanno di una collega del mio ex compagno. È stato fantastico, voglio dire, per la prima volta dopo mesi di solitudine profonda, mi sono sentita a casa. Ho incontrato due persone che lavoravano nel mio campo a Roma, una città in cui ho vissuto e in cui avevamo amici e punti di riferimento in comune. Una serata estiva in un roof-top newyorchese, mi ha proiettata nel ricordo di serate tanto familiari e simili su terrazze romane. Mi sentivo come il brutto anatroccolo che finalmente si ricongiunge con il suo gruppo. Ero così pazzamente felice!
Quella gioia è durata pochissimo perché i due registi romani erano solo in vacanza, però, andandosene, mi hanno lasciato la più preziosa delle “eredità”: un’amica! Una vera amica! Ok, non era detto che io e Laura (sì, siamo pure omonime) diventassimo per forza amiche. In fondo, ne ho conosciute di persone interessanti e piacevoli con cui il rapporto si è mantenuto sul superficiale, ma con lei è stato così da subito. Dal primo momento in cui l’ho vista, ho sentito che potevo fidarmi di lei e immagino che per lei sia stata la stessa cosa, altrimenti deve essere autolesionista a investire tutto il tempo che effettivamente trascorriamo insieme in cose così sciocche, ma piene di divertimento e valore, come di solito succede solo con gli amici veri.
Insomma, non è che io avessi investito nessuna speranza in quella festa della collega del mio ex, eppure se non ci fossi andata non avrei avuto l’occasione indiretta di conoscere l’unica persona che posso davvero definire un’amica qui a New York. Senza lei, non avrei avuto la maggior parte delle esperienze divertenti ed emozionanti che mi sono capitate qui. Tra queste, incappare ieri sera in un gruppo di amici di amici di un suo ex roommate. Così, tra gli altri, abbiamo conosciuto Andrea, una ragazza canadese di una bellezza disarmante con un cuore enorme. Andrea è generosa e non è affatto attaccata alle cose, anzi le piace proprio rimetterle in circolo dopo un po’ che le ha usate. Lo fa per lo stesso motivo per cui, dice, non bisogna disperare quando si perde qualcosa, perché la vita poi restituisce tutto quello che toglie. Basta mantenersi onesti e generosi.
Io voglio crederci anche perché per ora New York mi ha portato via un’agenda, un ombrello, una sciarpa, un quaderno e almeno 4 metro card. Ok, obietterete che non è New York che mi ha derubata, ma che sono io che sono distratta. Vi assicuro, però, che questa è una città davvero impegnativa e un momento di distrazione capita a chiunque. Vi assicuro anche che mi sento totalmente risarcita rispetto alle piccole perdite che ho avuto, proprio grazie a incontri come quello con Andrea. Non tanto perché ci ha invitate a casa sua, aprendoci il suo guardaroba ed il suo cuore, vestendo me da zero per la serata (di qui i jeans e ammettiamolo, anche la maglietta) e regalando a Laura un paio di scarpe di Alexander Wang che non voglio neanche immaginare quanto possano costare. Non è tanto per i beni materiali che ci ha prestato e regalato senza motivo che oggi mi sento così entusiasta e grata nei confronti della vita, ma per il suo atteggiamento luminoso.
Soprattutto, sono grata ad Andrea per la frase che mi ha scritto sul braccio. Sì, è opera sua o meglio, si tratta di una frase che le ripeteva sempre il suo nonno di origini italiane (poi una volta parliamo di come qui tutti abbiano origini miste e interessantissime e di quanto ci si senta banali ad avere i genitori, i nonni, i bisnonni, i trisavoli e probabilmente pure gli antenati ancora più indietro che vengono tutti dallo stesso posto e per lo stesso posto non intendo lo stesso continente, ma la stessa minuscola cittadina, comunque questo è davvero un altro discorso).
Si tratta di un detto che si trova nelle carte da gioco trevigiane, esattamente sull’asso di spade: Non ti fidar di me se il cuor ti manca. Mi sono commossa per la saggezza popolare che esprime. Insomma, non ci vuole certo chissà quale esegeta per capire che il riferimento è all’uso delle armi rappresentate dall’asso di spade e a quanto possano essere pericolose se usate da chi non ha cuore. Ho realizzato, poi, che questo concetto, non vale solo per le armi, ma per tutte le cose e le situazioni che richiedono una complessità di emozioni e un bel po’ di cuore per essere gestite. Ho pensato che Non ti fidar di me se il cuor ti manca, in fondo, vale anche un po’ per me e soprattutto vale per New York. Insomma, sto imparando, anche grazie agli incontri che faccio, che ci vuole veramente tanto cuore per avere a che fare con New York.