Fra sacro e profano e fra chi, ogni anno, trova superflua e lontana dalle nostre trazioni la festa di Halloween , è utile ricordare che la commemorazione dei defunti ha, in realtà, origini antichissime.
Pensiamo agli antichi romani che il primo giorno di novembre erano soliti rendere omaggio alla Dea Pomona, con rituali ed offerte votive per assicurarsi fertilità ed abbondanza. Anche i druidi si riunivano sulle colline e danzavano intorno ai fuochi, facendo offerte alle divinità con il raccolto e gli animali. Questo giorno segnava il passaggio dalla stagione estiva a quella invernale e, durante questo passaggio, il tempo si considerava sospeso permettendo al mondo dei vivi e quello dei morti di entrare in contatto. Nella cultura gaelica, il primo novembre si festeggiava “Samhain” e le persone indossavano costumi fatti con pelle e teste di animali, danzando attorno al fuoco ed offrendo sacrifici alla Dea Terra.
Poi accadde che i riti dei conquistatori si fusero assieme a quelli dei conquistati, dando vita a tradizioni popolari “pagane” che sono giunte sino ai giorni nostri, seppur modificate e spesso tacciate di eresia, quindi perseguitate. La Chiesa Cattolica Romana cercò di imporsi annullando le tradizioni popolari e nell’anno 835 d.C. decretò il 1° Novembre festa di tutti i santi, proprio per regolamentare e cercare di annientare feste pagane non autorizzate che, nell’ottica dei tempi, puzzavano più di zolfo che di incenso.
Immediatamente fu demonizzato e messo sotto una luce sinistra tutto ciò che apparteneva ai riti popolari: figure di spiriti e fate, rappresentanti il mondo della rigenerazione che supera la morte, divennero esseri pericolosi da temere, giacché si pensava che tornassero dalle tenebre ad infastidire i vivi. Le donne, da sempre simbolo di fertilità, furono fatte apparire come streghe cattive, il fuoco fu caratterizzato in chiave negativa come modalità per scacciare il terrore, invece di rappresentare la luce che guidava i defunti per tornare a casa. La Chiesa, nell’intento di vietare feste pagane che sfuggivano al suo imprimatur, iniziò una vera e propria crociata contro tutto ciò che ambisse a sfuggire al proprio controllo.
Come spesso accade, però, le tradizioni sono dure a morire, seppure perseguitate per secoli. Il mondo ecclesiastico poco riuscì a scalfire delle tradizioni locali ben radicate in tutto il territorio, ecco perché oggi, nell’arco temporale che va dal 31 ottobre al 2 novembre, da un capo all’altro dell’Italia, si trovano feste locali, tradizioni tramandate nei secoli e modi diversi di “sentire” la festa dei defunti. E quando si pensa alle radici cristiane dell’Europa, bisognerebbe anche pensare al “ponte dei morti”, in cui si ricordano i defunti, si esorcizza – antropologicamente parlando – la paura, e si festeggia la vita alle soglie dell’inverno.
Scaccia paura
Oggi per noi cristiani la fine di ottobre e i primi giorni di novembre sono tempo di preghiera perché le anime dei defunti trovino la pace, però è anche un periodo caratterizzato dall’idea, antropologicamente diffusa, di esorcizzare la paura e festeggiare la vita, alle soglie dell’inverno, con feste, dolci e usanze che variano da regione a regione.
In Veneto, le zucche sono le protagoniste della tradizione, soprattutto nella cucina di questo periodo (famoso il risotto di zucca). Una volta svuotate, le zucche venivano dipinte e trasformate in lanterne (quella della zucca, non è quindi, come si crede, una tradizione importata dall’America). Le candele poste al loro interno rappresentavano la resurrezione.
Secondo alcune tradizioni, le Fave dei morti dovrebbero sostituire le carezze di un nostro caro che è morto. Questi dolcetti devozionali si consumano, da antichissimo tempo, in molte regioni durante la ricorrenza dei defunti, in Umbria li chiamano Stinchetti dei Morti e in Veneto Ossi da Morti. Modellati a forma di fave, che per i romani erano il cibo sacro dei morti, questi dolci di solito si preparano con una base di mandorle tritate e zucchero, farina, burro, buccia di limone. Le Marche hanno una ricetta particolare, che si tramanda di nonna in nonna. Altri dolci caratteristici di questo periodo sono il pan dei morti della cucina lombarda, la colva pugliese, i pupi di zucchero siciliani.
Di casa in casa
La “Carità di murt” era invece l’antica usanza emiliana legata all’abitudine dei poveri di recarsi di casa in casa chiedendo cibi di ogni genere per calmare così le anime dei defunti. Questa usanza è diffusa sotto vari nomi anche in altre regioni, ed è alla base del rito dei bambini di andare di casa in casa vestiti da fantasmini: sono le anime dei defunti che chiedono un dono (una preghiera), e in cambio si astengono dal far scherzi o spaventare. Questa è fondamentalmente una tradizione legata alla necessità (un po’ macabra, diciamo) di inculcare nei bambini, il rispetto per i defunti ed abituarli a non fare troppi capricci.
Anche in Abruzzo, oltre alla decorazione delle zucche, i giovani bussavano di porta in porta, chiedendo offerte in memoria dei defunti: un vero e proprio rituale di Halloween si direbbe, anche se qui manca il travestimento d’ordinanza. Anche in Sicilia e in altre regioni del Sud quella di Ognissanti è una festa speciale soprattutto per i più piccoli che ricevono dei doni dai defunti. Dolci e frutta secca sono il premio che si aggiudicano i ragazzi che sono stati buoni durante l’anno.
In Sardegna, secondo la tradizione, la famiglia dopo cena non sparecchiava la tavola: gli avanzi rimanevano lì per accogliere le anime dei defunti. Altra peculiarità è la festa delle “anime” detta anche “a su mortu mortu”: gruppi di bambini vanno per i paese bussando di casa in casa, dicendo di essere “is animeddas”. È una ricorrenza sarda evidentemente gemella della anglosassone festa di Halloween. I bambini percorrono le strade del paese chiedendo dolci ai passanti; il dolce è considerato un pegno dato in ricordo dei propri cari scomparsi. Nel nuorese, un altro elemento accomuna la festa sarda a quella anglossassone, soprattutto nel passato. Anche qui le zucche venivano intagliate con facce spiritate ed utilizzate per fare scherzi e spaventare i più piccoli.
Tra l’altro, la zucca, simbolo di fertilità, era già utilizzata dai Greci e dai Latini, ma anche i Celti adoperavano lanterne ricavate dalle rape per tenere lontani gli spiriti.
L’usanza di bussare alle porte delle case e chiedere “dolcetto o scherzetto”, anche questa prerogativa dell’ormai imperante Halloween, sembra risalire alla pratica dei cristiani di andare in giro per i villaggi per il 2 novembre ad offrire preghiere per i defunti ricevendo in cambio un dolce di uva passa.
In Calabria, nelle comunità italo-albanesi, ci si avviava in corteo verso i cimiteri: dopo benedizioni e preghiere per entrare in contatto con i defunti, si approntavano banchetti direttamente sulle tombe, invitando anche i visitatori a partecipare.
Un banchetto per morti
In varie zone d’Italia è diffusa la credenza che i morti tornino a bussare alla porta dei vivi per chiedere suffragi per la loro anima nelle pene del Purgatorio. In Valle d’Aosta, ad esempio, nella notte a cavallo fra l’1 e il 2 novembre, si usava vegliare davanti ai fuochi lasciando sulle tavole delle pietanze per i morti che si credeva dovessero visitare le case dei vivi e cibarsi delle stesse pietanze con cui si erano sfamati i vivi. Anche la tradizione piemontese voleva che nell’apparecchiare la tavola, nella stessa notte, si aggiungesse un coperto per il defunto che torna a far visita ai vivi.
In Friuli i contadini lasciano un lume acceso, un secchio d’acqua e un po’ di pane sul desco. Sempre in Friuli, come del resto nelle vallate delle Alpi lombarde, si credeva che i morti andassero in pellegrinaggio a certi santuari, a certe chiese lontane dall’abitato, e chi vi fosse entrato in quella notte le avrebbe trovate affollate da una moltitudine di gente che non vive più e che scomparirà al canto del gallo o al levar della “bella stella”.
A Bormio (Lombardia), la notte del 2 novembre si era soliti mettere sul davanzale una zucca riempita di vino e, in alcune case, si imbandisce la cena. Nella zona attorno a Vigevano e in Lomellina c’era l’abitudine di lasciare in cucina un secchio d’acqua fresca, una zucca piena di vino, il fuoco acceso e le sedie attorno al focolare. In Val d’Ossola sembra esserci una particolarità in tal senso: dopo la cena, tutte le famiglie si recavano insieme al cimitero, lasciando le case vuote in modo che i morti potessero andare lì a ristorarsi in pace. Il ritorno alle case era poi annunciato dal suono delle campane, perché i defunti potessero ritirarsi senza fastidio.
In Puglia la sera precedente il due novembre, si usa ancora imbandire la tavola per la cena, con tutti gli accessori, pane acqua e vino, apposta per i morti, che si crede tornino a visitare i parenti, approfittando del banchetto e fermandosi almeno sino a Natale o all’Epifania. E, sempre in Puglia, ad Orsara in particolare, la festa veniva (e viene ancora chiamata) “Fuuc acost” e coinvolge tutto il paese. Si decorano le zucche chiamate “cocce priatorje”, si accendono falò di rami di ginestre agli incroci e nelle piazze e si cucina sulle loro braci; gli avanzi vengono riservati ai morti, lasciandoli disposti agli angoli delle strade. Diffusa è anche l’usanza della questua fatta da schiere di ragazzi o di contadini e artigiani che vanno di casa in casa, cercando “l’aneme de muerte”, cantando un’appropriata canzone, una specie di breve serenata rivolta alla donna di casa.
Il periodo che va dal 31 ottobre al 2 novembre, è un periodo “magico” e antropologicamente legato a tradizioni pagane millenarie; la riprova è nella permanenza di usanze che si sono appunto tramandate fino ai giorni nostri e contro le quali l’opera di oscurantismo della Chiesa poco ha potuto. Il “sacro ed il profano” che vanno a braccetto, come appunto, nelle migliori tradizioni popolari.