Quando arrivammo in Tajikistan la nostra Y10 era ridotta malissimo. La leva del cambio era ormai un gancetto storto, che pescava a fatica le uniche due marce disponibili. La ruota sinistra cigolava e la sospensione destra bussava sotto la lamiera dell’abitacolo. Ci fermammo a Korog per fare i visti d’ingresso in Pamir, con l’intenzione di costeggiare poi la Cina ed entrare in Tajikistan, ammirando mastodontiche montagne di settemila metri.
Furono giorni molto duri, quelli in attesa del visto. Contrassi una sorta di infezione intestinale abbastanza fastidiosa, al mio rientro da una giornata di riprese nella vallata alle porte di Korog. Il posto era incantevole, la gente accogliente, ma passai il mio tempo a letto con la febbre, nella speranza di ripartire. Passavo le notti a rotolare nella latrina della casa di pastori che ci ospitava, gattonando a slalom tra i loro escrementi e infilandomi poi due dita in gola per vomitare. Stavo malissimo.
La prima sera svegliai Paolo in preda all’arsura per farmi portare dell’acqua. Non trovò niente di meglio che quella del ruscello dove bevevano le mucche. Illuminai con la torcia il liquido nella bottiglia e vidi che vi galleggiavano dentro mille frammenti di terra e fango. Ne bevvi almeno un litro, in preda alla sete.
Giunse quindi, con baldanza ed euforia, il medico del villaggio. Un signore mezzo ubriaco di vodka già di prima mattina, con i baffi bianchi e la valigetta di pelle finta. “Hai bevuto troppa vodka ragazzo?”, mi chiese barcollando. “Io no, lei?” risposi in russo. “Mi raccomando, bevi tanta acqua e mangia riso in bianco. Ti passerà”.
Perfetto, ero abbandonato al mio destino. Pressati dai tempi di scadenza del visto del Pamir (scritto a mano sul passaporto), ripartimmo e affrontammo le ripide strade tajike, spesso attraversate da torrentelli di acqua gelida e interrotte da frane.
Ci fermammo più volte per far saldare dei pezzi che rischiavamo di perdere. Addirittura il cofano, sollecitato eccessivamente da due mesi di deserti e buche, si era staccato e rischiava di scivolare via.
Un buco grande come il fondo di un bicchiere di plastica si era aperto da poco sotto i piedi di Paolo, che guidava instancabilmente quel rottame verso la Siberia. Sapevamo che non saremmo mai arrivati in Mongolia. Passammo una notte sull’altopiano del Pamir, sovrastati da un manto di stelle mai visto e circondati da una vasta distesa di terra brulla e sterpaglie.
Il giorno dopo, sotto la neve, l’auto cominciò a rantolare per mancanza di ossigeno. Il carburatore faceva fatica, ma il motore Fire sembrava indistruttibile persino sulla strada tra le più alte al mondo. Alla frontiera tajika con il Kyrgyzstan avvenne un fatto piuttosto curioso. Paolo era sceso a consegnare i documenti e io ero rimasto in auto con i finestrini ben chiusi. Non eravamo equipaggiati per temperature invernali. Improvvisamente, in un’atmosfera irreale, non vidi più nessuno intorno a me. Vedevo solo il bianco della neve e una baracca avvolta dalla nebbia. Si fece strada un raggio di sole che mi riscaldò il viso e dopo qualche secondo fui investito da uno spostamento d’aria e da una pioggia di vetri.
Era esploso il mio finestrino verso l’interno! Cercai il responsabile per prenderlo a calci, convinto che una guardia mi avesse tirato un pezzo di ghiaccio, ma lo sportello non si apriva più ormai dall’Uzbekistan. Rinunciai. Paolo, trovando l’auto disseminata di vetri, mi disse: “Ma t’hanno sparato e non t’hanno preso? O quassù scoppiano i vetri?”.
Passammo il confine e il mio amico scese alla dogana kyrgyiza, per ripetere la solita routine di burocrazia e domande. Ero di nuovo solo e avevo molto freddo. Mi avvolsi quindi nel sacco a pelo e mi guardai intorno per capire se mi sarei dovuto aspettare altre sorprese. Incrociai lo sguardo con un militare seduto a qualche metro dall'auto, che mi fece segno come a dire: “hai freddo?”. Io dissi di sì, enfatizzando il gesto di stringermi nel sacco. La guardia sembrava aver capito, ma poi mi fissò con l’aria di chi sta per dire una cosa ovvia e mi disse: “E perché non chiudi il finestrino?”. Solo il suo Ak47 e la pigrizia di dover uscire scavalcando lo sportello, frenarono il mio istinto di andarlo a prendere a ceffoni urlando “ma sei scemo???”.
Dalla prossima settimana comincerà il racconto di The Yukon Blues, la spedizione in canoa sulle orme di Walter Bonatti nei territori del Grande Nord.
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