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March 6, 2014
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In viaggio col cowboy

Igor D'IndiabyIgor D'India
Time: 4 mins read

Il vecchio cowboy del Montana aveva guidato già otto ore sulle Alaska e Klondike Highway, fermandosi solo per fare rifornimento e rabboccare il caffè nel suo bicchierone di plastica. Impassibile. Mi aveva caricato a bordo del suo pickup Dodge a Fort Nelson, British Columbia, mentre andavo in autostop nello Yukon. Ogni tanto apriva il finestrino, sputava, si accendeva una sigaretta con un fiammifero, la fumava in pochissimi tiri profondi e la gettava via. Seguiva la cicca con lo sguardo dallo specchietto retrovisore, prendeva una bella sorsata di caffè e sospirava soddisfatto. Sembrava un santone.

Quando aveva fame, mi chiedeva educatamente di passargli un sacchetto di plastica con dentro dei cookies al cioccolato che gli aveva preparato la sua vecchia madre. Ne prendeva un paio con le dita enormi e se li infilava in bocca, sollevando i lunghi baffi bianchi. Non saprei dire l'età e neanche ricordo il nome, ma viaggiare con il cowboy dava pace. Era mite e silenzioso. La barba fatta di fresco, le camicie a quadrettoni perfettamente stirate appese dentro l’abitacolo. 

Capii subito le sue buone intenzioni quando accostò, mi guardò attraverso gli occhiali a goccia scuri e  mi domandò: "Hai mangiato figliolo?".

Chi percorre grandi distanze in spazi immensi e desolati sa bene cosa significhi essere soli, a piedi, in mezzo a una strada che attraversa il wilderness. "Soldi ne hai?" continuò quando ero già salito a bordo. Risposi che avevo messo da parte qualcosa lavorando come lavapiatti a Toronto negli ultimi cinque mesi e che ero partito appena quattro giorni prima dall'Ontario. Praticamente un record per essere la prima volta che mi mettevo in strada con il pollice in su.

Era il mio nono passaggio in seimila chilometri e mi portava fino a destinazione: Dawson City (YT). 

Il cowboy tirava dritto per Fairbanks, Alaska, per portare in regalo ai suoi nipotini di dieci e tredici anni un fucile Garand M1 della seconda guerra e un piccolo Winchester per la caccia ai roditori. Dalle sue parti si comincia presto a sparare. Suo padre aveva combattuto la gelida battaglia delle Ardenne e gli aveva vietato di partire per il Vietnam. "Scordati di partire per combattere in quella merda, il tuo posto è qua con le vacche!", gli diceva tutti i giorni a colazione. “Devo ringraziarlo il mio vecchio. Sessantamila giovani americani massacrati per un cazzo!” borbottava.

Il suo vecchio non parlava mai della guerra se non quando andavano a caccia di orsi con il suo fedele Garand M1. Era un fucile che io avevo visto solo nei film e nei documentari. Il cowboy lo custodiva come un tesoro in una valigia di alluminio e, mentre sorseggiava un pessimo whisky e cola caldo, durante la nostra sosta a Watson Lake, me ne parlava con orgoglio. "Mio padre diceva che è un'arma fenomenale. Puoi sparare quattrocento colpi al giorno e non fondere mai la canna. Se devi raffreddarla basta pisciarci sopra. Questa soluzione è utile anche quando il gelo blocca l'otturatore. Lo darò ai miei nipotini. Sono vecchio per andare a Grizzly ormai". 

Intorno a noi, fiumi e laghi erano ancora ghiacciati, nonostante fosse la prima settimana di maggio, e il wilderness canadese era un tappeto bicromatico: bianco e verde. Mai monotono però. Alcune mandrie di bisonti pascolavano appena fuori il fitto e branchi di caribou ci attraversavano spesso la strada. Il mio amico rimaneva impassibile. Ma porca miseria c’è un bisonte fuori dal finestrino! Almeno uno sguardo lo meriterebbe! Niente. Lui guidava come se fosse in tangeziale a Milano.

Gli raccontai che avevo intenzione di andare nel Grande Nord in canoa. "Beh, amigo, ci vuole fegato per fare quel viaggio. Fossi in te mi porterei una buona arma da fuoco. Orsi neri e Grizzly sono i padroni di casa da queste parti. Ricordati di non sparare mai a un orso in mezzo alla fronte. Hanno un cranio spesso e duro quei bastardi, la pallottola potrebbe rimbalzargli sulla testa. Sparagli solo nell'orecchio o sotto le ascelle". Dubitò fortemente della mia salute mentale quando gli confidai che non avevo la minima intenzione di portare armi con me. 

“Beh signore, con tutto il dovuto rispetto, secondo lei io che non ho mai sparato un colpo mi metto a cercare di centrare l’orecchio di un orso di seicento chili che corre verso di me a sessanta all’ora? Non credo funzionerebbe”.

Forse non avrei dovuto essere così sincero. Mi fissò talmente a lungo che per poco non ci piantavamo contro un pino innevato. Riprese il controllo del pickup che le ruote avevano già cominciato a grattare sulla ghiaia. I cowboy: se gli dici di guardare il paesaggio non si girano neanche, se gli dici che vai in giro senza fucile si sconvolgono. Bah.

Giungemmo a Whithehorse a ora di pranzo, ma non sostammo. Io ero abituato a mangiare una volta al giorno e non mi pesava restare digiuno, piuttosto mi preoccupava il fatto che lui avesse scordato l’insulina a Watson Lake e ne avrebbe avuto bisogno a breve. Trovarmi con un cowboy mezzo morto, nel nulla? Una prospettiva agghiacciante!

Tra le note di un malinconico pezzo country, vidi il fiume Yukon per la prima volta. Avevo sognato per un anno intero di vederlo! Si presentava ai miei occhi in tutta la sua magnificenza, gelato da un inverno lungo e rigido. Ero estasiato. Il cowboy piantò i freni. "Holy shit! Look at that!" e mentre sputava del caffè sul volante indicò una lince ferma in mezzo alla strada, completamente disorientata. Il felino, rarissimo, fece un balzo all'indietro e con agilità impressionante sparì tra l'erba bruciata dal gelo. Sentivo che la fortuna mi avrebbe accompagnato. Era chiaramente un segno.

Arrivammo a Dawson City e mi parve di sognare. Il sole era ancora alto nel cielo e le strade erano ingombrate da circa un metro di neve. Non girava anima viva. Ci fermammo per fare rifornimento all'unico distributore del posto. Non eravamo neanche a dieci gradi sotto zero, ma ogni tanto si alzava una raffica di vento e mi sembrava di perdere il naso dal freddo. Il cowboy uscì bestemmiando dalla stazione di servizio su Fifth Road. Aveva appena appreso che il passo di Eagle, in Alaska, era chiuso per neve e sarebbe dovuto tornare indietro addirittura fino a Whitehorse, percorrendo cinquecento chilometri in più di quanto avesse voglia e… senza insulina. "Good luck amigo" disse senza neanche guardarmi. Sparì tra due montagnole di neve e fango, saturando l'aria di rumore e fumo nero e lasciandomi al mio destino. Che tipo quel cowboy!

www.igordindia.it/myblog

 

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Igor D'India

Igor D'India

Documentarista d'avventura, ho attraversato lo Yukon in canoa sulle tracce di Bonatti, ho pagaiato sulle acque del Mekong, ho percorso l'Italia in bicicletta e trascorso 700 ore nella Grotta del Pidocchio (Palermo, Monte Pellegrino), a trenta metri di profondità, in completa solitudine. Mi piace documentare la relazione uomo-fiume-clima con approccio old style. Ho attraversato alcuni grandi fiumi del mondo e adesso torno in Alaska.

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