Nell’estate del 2009 mi trovavo a bordo di una Y10 del 1989 con un amico logista di Varese, Paolo Belarducci, per partecipare al Mongol Rally, una gara non competitiva a fini benefici, organizzata dall’associazione inglese The Adventurist. La manifestazione consiste nel partire da Londra, Barcellona o Milano, con un’ auto sotto i 1000 cc di cilindrata o con un mezzo impiegabile per servizi socialmente utili (camion, ambulanze, taxi), per giungere a Ulan Bataar, in Mongolia. I mezzi vengono quindi donati alle associazioni umanitarie locali.
Tra tutti i catorci, furgoncini, utilitarie, camion dei pompieri, furgoni addobbati in modo quasi grottesco, la nostra Y10 spiccava per le sue dimensioni estremamente ridotte e per la fumata bianca che liberava in accelerazione, dovuta alla combustione di olio davvero esagerata. Per questo grave difetto venne soprannominata la Friggitrice. Non mi dilungherò adesso sul prologo e sull’epilogo di questa incredibile avventura, ma racconterò del nostro rocambolesco passaggio in Afghanistan, avvenuto il giorno dopo le elezioni democratiche che avrebbero portato al potere Karzai.
Quello che doveva essere un veloce passaggio di uno dei posti più belli del mondo, si trasformò per noi in cinque giorni di forti emozioni ed eventi imprevedibili. Un po’ per incoscienza un po’ per arroganza, avevamo ignorato tutti gli allarmi della Farnesina e dell’Unità di Crisi, che avevamo opportunamente informato delle nostre intenzioni e che ci avevano detto chiaramente: “Non è il momento di entrare in Afghanistan e sarete responsabili delle conseguenze delle vostre azioni”.
Passammo il confine uzbeko diretti a Mazar e Sharif. Ricordo ancora la faccia dell’ufficiale della dogana, quando alla domanda “motivo del vostro ingresso in Afghanistan?” risposi “turismo”. L’ufficiale cominciò a ripetere in modo ossessivo: “ Turismo…in Afghanistan! Con quella macchina!”. Non potevamo certo spiegare che stavamo girando un documentario.
Eppure l’atmosfera che trovammo appena entrati, ci lasciò piacevolmente elettrizzati e galvanizzati. Eravamo già abbondantemente provati dal deserto del Kazakhstan e finalmente respiravamo aria nuova. Era davvero come vivere in un film.
Donne con il burka facevano la spesa per strada e la vita proseguiva a ritmi folli tra i mercati di frutta, pane e verdure. Il traffico in Afghanistan è tale che se uno di Kabul venisse a Palermo gli sembrerebbe una città ordinata e tranquilla, come può essere Berna per noi.
Il popolo è molto ospitale, disponibile, pacifico. La bellezza dei volti della gente è altrettanto sorprendente. Non è infatti raro trovare persone con i capelli rossi e la pelle bianca, che potrebbero essere scambiate per irlandesi, o uomini scuri con occhi a mandorla, ma anche neri, mulatti, albini e biondi con gli occhi verdi.
Costruita in ottimo asfalto, la strada che avevamo percorso, appena varcato il confine, attraversava gole in mezzo a ripide falesie, prati e pascoli verdissimi, ruscelli, risaie, poi nuovamente zone desertiche e villaggi costruiti con fango e paglia. Ovunque intorno a noi apparivano i campi di battaglia della guerra contro i sovietici, caratterizzati dai relitti dei blindati russi. Notammo che ogni palmo di terreno era diverso da quello accanto e poteva nascondere qualunque tipo di insidie. Dal nulla apparivano cunicoli scavati nella roccia, grotte profonde e reticolati di sentieri che sparivano tra le montagne. A Pul e Khumri incrociammo un camion che trasportava un mezzo della polizia evidentemente malconcio. Era saltato in aria in un attentato avvenuto poche ore prima. “Alla fine non è poi tanto mal messo…” esorcizzammo io e Paolo, ma era chiaro che il nostro giro non sarebbe stato tutto rose e fiori.
Arrivati a Kunduz domandammo a un passante dove fosse la frontiera. La risposta fu immediata: “è a cinquanta chilometri in quella direzione, ma a quest’ora sarebbe una pazzia avventurarsi sulla strada, ci sono i talebani in movimento”. Mentre nominava i ribelli portò la mano destra sotto al mento mimando le barbe e con la sinistra puntava la strada davanti a noi. Fino a quel momento avevamo avuto la percezione di essere al sicuro, bastava stare attenti ai numerosi convogli della polizia afghana e alle milizie dell’ ISAF che sfrecciavano a velocità folle, in assetto da battaglia, con mitragliatrici spianate. Improvvisamente eravamo in guerra e il film d’avventura sarebbe diventato presto una maratona per tornare in Uzbekistan.
Restammo a dormire a Kunduz in attesa di lasciare il Paese entro la domenica seguente. A pochi chilometri dalla città, in mezzo a una vasta area desertica, ci abbandonò definitivamente la cinghia dell’alternatore. L’auto doveva quindi partire “a strappo” se si fosse spento il motore. Il giorno prima ci avevano detto che i talebani erano in zona e non ci piaceva l’idea di restare fermi in panne. Eravamo ormai quasi al confine nord.
Con nostro grande stupore però, di domenica la dogana con l’Uzbekistan era chiusa e i nostri piani di uscire dal Paese andarono a farsi benedire.
La scelta era stare a marcire nello stesso posto per ventiquattro ore o tentare l’altra frontiera a Khorog, circa trecento chilometri più ad est. Erano le undici del mattino e non avremmo avuto ancora molto tempo a disposizione. Il rischio di rapimenti era troppo alto, la regola generale in questi posti è muoversi sempre. L’auto era ormai rimasta con tre marce e non avevamo motivo di credere che le condizioni delle strade sarebbero peggiorate. Puntammo Faizabad, nella quale fare sosta in caso di ritardo e dalla quale ci saremmo poi diretti a Khorog per passare il confine il giorno dopo, dal Pamir.
Ad un certo punto però, verso le tre del pomeriggio, la strada asfaltata che ci aveva portato attraverso magnifici paesaggi accanto a un fiume ricco d’acqua, si trasformò in un immenso cantiere che si infilava in una gola dalla pareti alte e scoscese in mezzo a minuscoli paesini di pastori. La leva del cambio cominciò a dondolare eccessivamente, come se fosse un pendolo, ma eravamo convinti che avrebbe retto per quelli che credevamo fossero solo pochi chilometri di deviazione dalla strada buona. Continuammo. I chilometri per Faizabad, in realtà, erano ben centoventi e all’altro capo del cantiere non c’era niente se non montagne.
Fummo spesso fermati da operai armati, che scortavano le grosse ruspe intente a rovesciare massi enormi giù nel burrone di fianco alla strada. Ogni tanto dovevamo ripartire spingendo l’auto tra le pietre con l’aiuto degli stessi operai che ci guardavano esterrefatti.
Costretti a guadi e passaggi sul letto di torrenti in secca, guardammo preoccupati il sole basso dietro i monti e davanti a noi le ripidissime salite sabbiose a strapiombo sul fiume. Dovevamo toglierci al più presto da quell’impiccio prima del buio.
I grossi camion Kamaz, che transitavano contromano, non avevano intenzione di rallentare neanche per un attimo e proseguivano a velocità esagerata, costringendo Paolo a delle manovre da brividi con le ruote a pochi centimetri dal dirupo.
“Ferma la macchina abbiamo forato dietro!” urlai dopo aver sentito la ruota posteriore che sfiatava e il cerchio che cozzava sui sassi. Ci mancava solo di bucare in mezzo alle montagne afghane a quell’ora! Cambiammo la ruota in pochissimi minuti in preda all’adrenalina, ma il problema dell’accensione rimaneva. Per miracolo la macchina ripartì, ma dopo l’ennesimo guado e una botta fortissima sotto l’abitacolo, la Friggitrice si spense. Il sole se n’era andato, ormai era buio pesto. Paolo cercò aiuto in un piccolo villaggio, io mi rannicchiai in un canale di scolo con addosso solo lo zaino della telecamera, documenti e soldi. Guardavo l’auto ferma in mezzo al sentiero, con le portiere aperte, ormai al buio.
Furono momenti di incertezze. Paolo portava cattive notizie: niente ospitalità. Pochi minuti dopo, mentre cercavamo di riparare la povera Friggitrice, i nostri volti cupi e provati vennero illuminati da un forte fascio di luce. Era un grosso Kamaz che tornava a Faizabad. Scesero due autisti piuttosto simpatici che parlavano discretamente russo e che si offrirono di guidarci a destinazione dopo averci aiutato a far ripartire la Y10. Tirammo un sospiro di sollievo. La sensazione di essere guidati al sicuro ci diede speranza e, soprattutto, ci fece capire che senza aiuto saremmo rimasti tutta la notte a girare per quell’immenso cantiere, che somigliava sempre più a un labirinto.
Faizabad era un vai e rivieni di veicoli dell’ UN e convogli militari tedeschi. Il giorno seguente tornammo indietro verso Kunduz, dalla stessa strada. Nei circa cento chilometri che ci separavano dall’asfalto, la leva del cambio subì danni gravissimi e il filtro dell’aria si staccò in seguito alla fusione della plastica, dovuta al contatto con una parte incandescente del motore che “ballava” ormai all’interno del cofano.
Arrivati a Kunduz, dopo centinaia di chilometri fatti in terza, ci riposammo nell’albergo vuoto e desolato che ci aveva ospitato all’andata. Mi svegliai alle quattro del mattino per via del caldo e di strani rumori. Il ventilatore era spento e le finestre sbattevano. Un forte vento sembrava percuotere tutto l’edificio. In lontananza si udivano degli spari. Affacciandomi alla finestra per un attimo ebbi l’impressione di essere seriamente nei guai. La città era al buio, avvolta da una sorta di cortina fumogena. Paolo riconobbe dei rumori che aveva sentito già a Grozny in occasione di un lavoro come logista: “Non so a te, ma a me questi sembrano dei cingolati. Rivestiamoci, soldi e documenti in tasca e pronti a partire se ce ne fosse bisogno”. “Dalla puzza credo sia una tempesta di sabbia” dissi dopo aver riconosciuto l’odore della polvere del deserto che da settimane impregnava i nostri vestiti, “forse è solo una scaramuccia fuori città. I talebani avranno approfittato della scarsa visibilità per farsi vivi”. Tornammo a letto vestiti, con il necessario sottomano, e dormimmo di un sonno profondo e inquieto fino al giorno dopo.
Ci svegliammo in una fitta coltre di sabbia che avvolgeva Kunduz. Ci aspettava una lunghissima attesa alla frontiera uzbeka, la traversata dell’innevato Tajikistan e del Kirghigistan. Non lo sapevamo ancora, ma era appena cominciata la disfatta e la fine della nostra spedizione, che avrà termine solo a metà Settembre per me e a Ottobre per Paolo.
Da questa avventura è nato il documentario The Y10 Diaries -Mongol Rally, disponibile sul sito internet igordindia.it. Di seguito il trailer del documentario, vincitore dell’edizione 2010 dell’Adventurists Film Festival.
https://youtube.com/watch?v=54nxEZiy9S0