Rientro in acqua nel mese di Aprile del 2011. Una brutta frattura alla gamba destra, durante un banale allenamento di pallamano, mi ha costretto a un recupero di quasi sei mesi tra operazione, fisioterapia e palestra. Con l’emozione di chi torna a camminare dopo tanti mesi, entro nell’Oreto in una mattina fredda e grigia. L’odore di fogna tipico del fiume mi è ormai familiare. Questa sarà la tappa della fine della risalita vera e propria e mi porterà non alle sorgenti, su cui c’è da fare un discorso più articolato, ma nel punto esatto in cui i due maggiori affluenti si uniscono in un unico fiume.
Il bacino idrografico dell’Oreto ( 130 kmq circa) è infatti un sistema complesso di vari rigagnoli e torrentelli che, come piccoli capillari, confluiscono verso un unico letto più grande, che porta le acque fino al mare.
Da Fontana Lupo e dal torrente di Altofonte “canale delle acque del Parco”, che ho già superato nelle scorse due tappe, arriva di certo un discreto contributo di acqua, ma le due principali “strade” che danno vita a quello che poi vediamo scorrere sotto il ponte Filicino nella valle sotto Altofonte, sono il Sant’Elia, che scende da Pioppo, e il torrente Barone. L’incontro avverrebbe sotto il piccolo rilievo collinare chiamato Cozzo Meccini. Per le sorgenti più alte del fiume bisognerebbe risalire quindi questi due corsi minori, ma poiché non vale la teoria del “serpente con la coda più lunga” è inutile inseguire l’affluente che nasce più lontano, poiché la mia non è la risalita di un intero bacino idrografico, ma di un singolo fiume. Per Wikipedia, ufficialmente, le sorgenti principali sono: Api, Alloro a Vigna d’Api, Villa Renda, Santa Maria e Fontana Lupo, mentre i principali affluenti il Torrente dei Greci, il Vallone Piano di Maglio e il Vallone della Monaca.
Durante questa tappa attraverso un certo dislivello, evidenziato da altre belle cascatelle e da una in particolare, l’ultima a partire dalla foce, alta più o meno quattro metri. È uno spettacolo bellissimo, la roccia è calcarea e chiara, l’acqua viene giù abbondante. Alla base è viscida e nella fessurona centrale che sale dal basso fino alla “cima” la roccia è un pò “rotta”. Avrei potuto cercare altre strade per vedere l’Oreto, ma la scelta di risalirlo camminando nelle sue acque mi impone anche di percorrere la via più diretta. Decido di non aggirare l’ostacolo.
Non sarà che un blocco di quarto/quinto grado al massimo, ma per la mia preparazione in materia di scalate, l’assenza di sicura, e tutta l’acqua che mi scorre sotto i piedi è un momento delicato. Psicologicamente è il primo “esame” dopo la riabilitazione. Recupero il canottino fino alla base della parete assicurandolo con una cima alla cintola e comincio a cercare appigli. Gli appoggi sono due buoni terrazzini in cui mettere mezzo piede. Qua si è già a una seconda/terza rinviata, facendo il paragone con un monotiro da falesia, e bisogna stare attenti. Riesco a tirar fuori un piede dalla fessura e a metterlo in aderenza con lo stivale bagnato, che ovviamente non tiene. Consapevole di avere la tecnica di un tricheco, cerco di ricordarmi qualche trucco per scavalcare la pancia di pietra sulla quale sono ormai spalmato. Finalmente trovo una sporgenza che può tenere il mio peso mentre spingo con la punta del piede destro e posso cercare con la mano sinistra i sicuri maniglioni sotto delle erbacce. Finalmente, riesco a tirarmi su. Urlo di gioia. Faccio le mie riprese, mi godo il momento, poi rimetto lo zaino in spalla, recupero il canottino e riparto.
Pian piano il dislivello diminuisce e, alle mie spalle, appare nitido il rilievo della Moarda di Altofonte. Ripercorro con la mente tutte le tappe e tutti i momenti più belli della risalita, pochi in realtà. Se ci penso bene ho nuotato più nella merda che nell’acqua e credo che la questione Oreto si risolverà solo quando l’uomo si farà da parte, probabilmente annientato dalle sue stesse diavolerie, in un futuro non troppo lontano. L’unico pensiero che mi rasserena è che questo fiume è sempre stato qua , ci sarà ancora quando noi non ci saremo più e in poco tempo si riprenderà i suoi spazi, ripulendosi dalle nostre tracce.
Scorgo delle case sulla collina alla mia destra, sembra ci sia un residence. Credo che Pioppo sia vicina. Ecco quindi un bivio. Il fiume si spezza inequivocabilmente in due tronconi: a sinistra verso La Montagnola e a destra verso Pioppo e Pezzingoli. Prendo a destra, ma rimango nel dubbio. Considerate le dimensioni di questi due torrentelli il fiume Oreto è appena terminato, o meglio è qua che prende il nome Oreto e diventa un fiume. Il torrentello che imbocco passa sotto il parcheggio dell’ Acqua Park ed è un ricettacolo di zanzare e immondizie. Passo sotto un ponte alto di pietra. Trovo un altro ponticello di pietra dal quale si affaccia l’amico Giuseppe Battaglia che ancora una volta mi è venuto a prendere.
Il fiume rimane una fogna anche in questa bella zona. Colpa anche, o soprattutto, di chi ci abita. Probabilmente sono gli stessi che pretendono che “le istituzioni” ci salvino dalla nostra stessa criminosa stupidità, nel solito assistenzialismo che non porta a nulla. In merito rimango pessimista e mi schiero dalla parte del fiume. Forse nel mondo non ci sono più terre vergini da scoprire, ma vicino casa ci sono tanti luoghi che sono stati dimenticati, non-luoghi, che dopo anni di abbandono sono irriconoscibili e vanno riscoperti per soddisfare il nostro innato senso di ignoto. Questa è la Urban Adventure.
Qui le precedenti puntate della risalita dell’Oreto:
Prima puntata – Oreto: dove c’erano le ninfe, oggi solo discariche
Seconda puntata – Ascoltando il richiamo di una selva oscura
Terza puntata – Il tuffo nell’Oreto