Nonostante le guerre con gli insetti, vi erano dei momenti di pace intensa e di grande poesia, specialmente quando incontravo i pochi veri abitanti di quel mondo senza stelle. Notai già dal secondo giorno un piccolo insetto bianco, con sei zampe e due lunghe antenne. Era innocuo, si muoveva timidamente tra le concrezioni e spariva dopo pochi minuti nei minuscoli fori di calcare. Vi era poi una specie di grossa zanzara, che era appoggiata a una pancia di pietra sporgente, ai piedi del pozzo. Ogni mattina passavo a salutarla. Restava immobile mentre le parlavo per qualche minuto, prima di far colazione. Uno dei miei giochi preferiti era spendere ore a cercare nella roccia delle forme che mi ricordassero qualcosa. Come le nuvole, la pietra può sorprenderti con dei giochi di ombre, disegni, rilievi, che con un po’ di fantasia possono sembrare il ritratto di un amico, una scritta in stile stravagante, o un posto che hai già visto, ma non ricordi quale sia.
Allo scadere della seconda settimana avevo la sensazione di essere ormai parte integrante della grotta. Era davvero un mondo lontano dal nostro. I mosconi erano diventati solo un noioso diversivo e cominciai anche a provare un certo rispetto per la loro forza, resistenza, il modo con cui combattevano contro la morte fino all’ultimo respiro. Mi lasciavano basito. Alcuni rimanevano vivi per giorni, tentando di trovare costantemente una via di fuga. Ispezionando il campo durante la seconda settimana, trovai il cadavere di un insetto completamente avvolto da una sorta di batuffolo di cotone bianco. Era muffa.
Anche i miei zaini si coprirono di muffa nei giorni seguenti. Per quanto io potessi cercare di tenerli puliti, strofinandoli con degli stracci asciutti, le macchie bianche e verdi rispuntavano dopo un paio di giorni.
Il campo, all’inizio della seconda settimana faceva quindi un piacevole odore di terra e funghi.
Inoltre, pian piano, i miei sensi si stavano acutizzando. Al buio pesto, sdraiato nella mia brandina, ascoltavo i suoni sempre più familiari dello stillicidio e immaginavo lo spazio intorno come una proiezione della mia mente.
Un giorno mi svegliai al suono dei tuoni in lontananza. Le correnti d’aria si fecero più fredde. Monte Pellegrino era avvolto da un temporale. Immaginavo allora il promontorio come lo avevo sempre visto da casa mia, in tutta la sua eleganza, con colori nitidi e vivi. Con la fantasia viaggiavo sulla città fino in cima a Monte Cuccio e tornavo poi alla mia grotta "vedendo” persone, amici, parenti, tutti indaffarati nella loro quotidianità.
Sogni e realtà si fondevano senza un inizio e una fine in questi interminabili dialoghi con l’esterno, mai disturbati da un orologio o dalla fretta del risveglio.
A volte mi accorgevo di aver sognato solo perché, una volta accesa la lampadina, mi ritrovavo sdraiato nella mia branda, quasi sconvolto dall’ impossibilità di aver vissuto una tale, magnifica esperienza. Il sogno più ricorrente era quello di essere svegliato da una cascata di raggi solari che invadevano la grotta.
Allora uscivo arrampicandomi a mani nude sullo strapiombo fangoso e raggiungevo i miei cari. Questi, stupiti di vedermi, mi chiedevano perché avessi abbandonato l’esperimento e io inventavo sempre scuse diverse per poi tornare al pozzo con la consapevolezza e la vergogna di aver rovinato tutto.
Al risveglio mi batteva forte il cuore, invaso da nostalgia e felicità di non aver mollato. A volte però la realtà risultava più spaventosa del sogno. Una mattina mi svegliai di soprassalto a causa di un boato. L’onda d’urto partì da molto lontano, diventando sempre più forte, finché ad un tratto investì la grotta che cominciò a scuotersi. Per quattro secondi la mia branda vibrò vigorosamente, come scossa da una forza sconosciuta e le lampadine da campo tintinnarono sulla roccia. Poi, un silenzio assordante.
Decisi di non muovermi. Attendevo un segno, qualcosa che mi aiutasse a capire l’accaduto. Mi alzai per accendere la luce e assicurarmi che non stessi dormendo.
Ero convinto che la montagna si stesse solo assestando e cominciai ad avere il terrore che il mio campo, costruito su un ammasso di detriti crollati secoli fa, potesse franare via, trascinandomi al buio nel pozzo sottostante.
Avevo l’impressione di essere seduto su un castello di carte sul bordo di una scarpata.
Indossai allora il casco, raccolsi torcia e borraccia e mi avvicinai alla radio. Questa cominciò a gracchiare improvvisamente, riportandomi alla realtà. Antonio, uno degli addetti alle comunicazioni radio di emergenza, mi avvertiva che c’era appena stato un terremoto del quarto grado della Richter al largo di Ustica. Alcune scuole erano state evacuate e in città c’era stato il panico per alcuni minuti, ma nessun danno. Confermai che all’interno del pozzo non c’erano stati distacchi e che stavo bene. La notizia del terremoto in un certo senso mi rassicurò. Sarebbe stato molto peggio, a mio avviso, se il tremore fosse dovuto al movimento del campo.
Alla fine, in caso di scosse, ero in uno dei posti più sicuri al mondo, circondato da centinaia di metri di solida roccia. Convinto di questo, me ne tornai a dormire.
La prossima volta: incontri inattesi, gli ultimi giorni, l’uscita e il ritorno al mondo in superficie.
Leggi la prima e seconda puntata dell'avventura di Igor D'India su La VOCE di New York