Il prossimo 20 gennaio sarà esattamente un anno che Donald J. Trump, controverso tycoon newyorkese dai modi burberi e “politicamente scorretti” e dalla pettinatura inconfondibile, siede allo Studio Ovale con la carica di Presidente degli Stati Uniti d’America. Un epilogo inimmaginabile all’inizio della campagna elettorale, quando quel candidato improbabile, imprenditore milionario che ha firmato le maestose torri dorate che spiccano sullo skyline newyorkese, si presentò come colui che avrebbe rivoluzionato il “sistema” e condannato a morte l’establishment. Un candidato che ha sbaragliato poi tutti: i competitor repubblicani e la sfidante democratica Hillary Clinton, scelta evidentemente poco apprezzata dalla base, già pregiudicata dall'”E-mail gate”, che ha finito per spalancare le porte al suo rivale.
Nulla, quindi, ha potuto contro Donald Trump: né l’indagine aperta sul Russiagate e le continue insinuazioni su suoi presunti legami con la Russia di Putin, né le sue affermazioni off-the records, per così dire, “poco edificanti” sulla propria condotta sessuale, né la sostanziale impreparazione che sembrava dimostrare ad ogni dibattito. Ciò che i suoi avversari consideravano punti di debolezza e appigli per attaccarlo, si rovesciava in punti di forza apprezzati dai suoi irriducibili sostenitori. Anche perché, poi, il rischio era che chi criticava Trump per i suoi modi un po’ “volgari” non fosse poi tanto meglio di lui, ma solo un po’ più “politicamente corretto” e quindi più ipocrita. La sensazione, insomma, è che anni di politiche lontane dalla gente e, nel caso di Obama, di altissime aspettative drammaticamente disattese abbiano contribuito a spianare la strada a colui che prometteva di fare tabula rasa e di “rendere l’America di nuovo grande”.
A quasi un anno dalla sua nomina a Commander-in-Chief, per noi della Voce non è complicato abbozzare un bilancio. E’ vero: una volta diventato Presidente, la carica “rivoluzionaria” e “anti-establishment” che prometteva prima di entrare alla Casa Bianca è stata ridimensionata e in parte normalizzata dai potenti apparati dai quali la politica interna ed estera americana dipendono fortemente. Ma certe promesse, Trump, le ha mantenute: come quelle che riguardano l’immigrazione, con il Muslim Ban; l’abrogazione delle protezioni per i Dreamers, i figli degli immigrati illegali; l’eliminazione di un programma per i migranti minori che scappano dalla violenza in America Centrale; l’abbandono del Global Compact delle Nazioni Unite sui migranti; l’implementazione del muro con il Messico. Mantenuta la parola anche su clima e ambiente: perché gli Usa di Trump hanno detto addio agli accordi di Parigi sul clima – non certo i migliori possibili, ma un primo passo nella giusta direzione -, hanno dato il via all’ultima fase della costruzione del Dakota Pipeline, nonostante le proteste delle tribù che vivono nel Sud dell’Illionois, hanno approvato la realizzazione del Keystone XL pipeline, altro oleodotto bloccato da Obama perché, disse l’allora Presidente, avrebbe minato la “leadership globale” degli Usa sul clima, e hanno in generale intrapreso politiche molto vantaggiose per le grandi compagnie produttrici di petrolio e gas, ma molto meno per l’ambiente.
Oggi, con Trump, gli Stati Uniti hanno un Presidente meno inclusivo sui diritti delle minoranze, comprese quelle LGBT, mesi fa già sul piede di guerra a causa della decisione del tycoon di rimuovere l’obbligo per le scuole di garantire agli studenti transgender il diritto di usare il bagno del proprio genere di scelta. Per non parlare, poi, delle donne, verso le quali non si può dire che il Commander-in-Chief abbia mostrato, nelle sue esternazioni passate, particolare rispetto. E proprio a tal proposito, le accuse di sexual harassment rivolte a Trump, in un periodo di riscossa femminile più generale che non guarda in faccia nessuno, neppure i potenti, rischiano di far traballare la poltrona presidenziale.
Così, per quanto i mercati stiano reagendo bene a Trump e per quanto la storia riconoscerà certamente alla sua amministrazione dei meriti (ad oggi, per esempio, si potrebbe citare la messa in discussione dei grandi e spesso iniqui trattati commerciali come il TTIP e il TPP), l’arretramento a livello di diritti civili e umani sdoganato dalla sua Presidenza ci sembra un motivo sufficiente per ritenere complessivamente negativo il bilancio di questo primo anno di “The Donald” alla Casa Bianca. Un anno dopo il quale, ci auguriamo, i prossimi che seguiranno saranno caratterizzati da una profonda presa di coscienza collettiva – da parte di politica, media e opinione pubblica – riguardo a ciò che ci ha condotti fin qui (errori, tanti, compresi) e a quello che deve essere fatto per ripartire.