Nonostante il rarefarsi dei protagonisti dell’esodo dall’Italia nel secolo dell’emigrazione (1861-1970), la memorialistica dedicata al fenomeno continua a godere ottima salute. Se le generazioni che hanno ispirato quelle pagine poco alla volta tendono a scomparire, sono spesso i figli e i nipoti a testimoniare quella che giustamente considerano epopea di famiglia, anche per senso di gratitudine e rispetto.
Nel genere, non tutte le pubblicazioni meritano eguale stima sotto il profilo letterario, ma – quando sincere e documentate – tutte vanno ad arricchire l’elenco dei racconti di vita collettiva e individuale che formano la memoria mai colma, necessaria alle comunità di destinazione e di origine. Solo attraverso quella memoria si possono rinsaldare i legami privati. Ma anche quelli pubblici – istituzionali, culturali ed economici – che tante località italiane hanno costruito con i luoghi dove loro ex cittadini sono emigrati.
Un buon esempio di come questa memoria detta memoria possa essere tramandata, viene da Storia di una emigrata, un lavoro di Simone Feroli che non casualmente porta in premessa una frase di Wang Shu: “Perdere il passato significa perdere il futuro”.
La narrazione si occupa della vicenda della zia dell’autore, “Vittoria, che nel 1912 partì per una nuova vita negli Stati Uniti”, abbandonando Roccantica, comune della provincia di Rieti, a 26 anni. Siamo all’antivigilia della Prima grande guerra, e la giovane donna parte, come altre centinaia di migliaia di italiani, per il mal operare degli allora governanti, che invece di dedicarsi allo sviluppo delle sacche di povertà del paese, andavano per guerre coloniali nel Mediterraneo, combattendo l’impero turco per sottrargli i territori libici.
Viaggia da sola verso Napoli e prende, come milioni di connazionali, il transatlantico della speranza, che al termine della lunga e faticosa traversata approda vicino a Liberty Statue, inaugurata proprio nell’anno di nascita di Vittoria. Benché debba lasciarsi dietro gli affetti che l’hanno accompagnata dalla nascita, ha deciso di lasciare la vita contadina, tra campagna, mulino e forno, botti di vino e di olio, e sfidare la sorte della vita nel paese sconosciuto ma “favoloso”. Se ne sente attratta e spera che lì possa svoltare.
Non va completamente allo sbaraglio: ad attenderla, come capita a un po’ tutti gli italiani che sbarcano al molo di Ellis Island, ci sarà un parente o un amico di famiglia. Vittoria, dopo il lungo viaggio in mare iniziato il 18 aprile è attesa mercoledì 1° maggio dal cugino Attilio che con la moglie Olga vive a Eastchester nel Westchester newyorkese. Al cugino toccherà trovarle un giaciglio e qualche lavoretto, tanto per cominciare. Poi sarà lei a darsi da fare. L’arrivo ad Ellis il giorno della festa dei lavoratori è comunque di buon auspicio.
A poco più di quattro mesi dall’arrivo, Vittoria andava in sposa a tal Antonio Cinquina, vedovo, con il quale sarebbe rimasta tutta la vita. Adesso era “sistemata” come si diceva allora, aveva casa e famiglia a Tuckahoe e ne era la “padrona”. I coniugi Cinquina si sarebbero presto trasferiti nel Bronx e qui avrebbero allevato i figli che nel frattempo, come usava, il buon Dio inviava copiosi.
Per l’autore ricostruire i fatti della quotidianità, all’interno del progressivo inserimento di Vittoria nella società americana, con il contestuale progressivo distacco dal passato italiano, è obiettivamente difficile, a causa della frammentarietà delle testimonianze orali e scritte e della facilità con cui le une possono entrare in conflitto con le altre. Dal quadro complessivo si ha il relato di una vita sufficientemente armoniosa, costellata di qualche sventura e di tante gioie. Vittoria e Antonio mettono al mondo cinque figli che vanno ad aggiungersi a Michelina, dote del primo letto.
Agli atti del censimento del 1925 il nucleo famigliare figura ancora compatto allo stesso domicilio. Il capofamiglia è operaio in una raffineria di zucchero, Vittoria è casalinga. Nel censimento del 1950, riporta Feroli, “risulta che Antonio di 71 anni e Vittoria di 64 a casa erano rimasti da soli. I figli si erano sistemati, chi più e chi meno.” A parte Enrico, chiamato a combattere nel luglio 1943 -e morto col grado di caporale nel marzo 1945 – quattro giorni prima del ventiseiesimo compleanno – da radio-operatore nel 579th 392th Bomb Group. Lo avrebbero insignito della “Purple Hearth”. Aveva gli anni di mamma Vittoria all’arrivo a Ellis Island.
Tante e belle le foto di Roccantica che, in coda, corredano il libro di una fetta d’Italia sparita.