Immaginarlo sul palco di un piccolo Comedy Club di New York, di fronte soltanto a qualche altro comico che aspetta di prendere il suo posto, fa un certo effetto.
Luca Ravenna è uno di quelli che in Italia riempie i teatri, che può organizzare una tournée nello stivale e fare sold out in ogni città o creare dal nulla un podcast insieme a Edoardo Ferrario e finire subito in classifica.
È quindi strano vederlo dall’altra parte dell’oceano, nella patria della stand up comedy, partendo da zero come fosse un principiante.
“Ho preso tanti schiaffoni in questi giorni”, dice sorridendo. “Qui entri nelle green room e i colleghi non ti guardano neanche in faccia. Poi magari vedono quanti follower hai sui social e cambiano completamente atteggiamento nei tuoi confronti. Gli americani sono utilitaristici”.
Non veniva a New York da 18 anni, ma dopo due spettacoli conclusi con successo ha deciso che il terzo, Red Sox, sarebbe stato sul rapporto che gli italiani hanno con gli Stati Uniti. È partito quindi da Roma e insieme al fratello Matteo ha deciso di rimanere un mese negli USA, per vivere un’esperienza dalla quale poter prendere spunto nella scrittura del nuovo copione.
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“Mi sono detto ‘voglio fare stand up a New York’ e qui ho realizzato di essere un beginner: non tanto per il fattore linguistico, quanto più per l’atteggiamento da tenere sul palco. In America non è apprezzata l’insicurezza e la timidezza e questa è la lezione più interessante che ho imparato a livello lavorativo”.
Dall’Upper West Side a Lower Manhattan, non sono infatti mancate le serate durissime. “A volte è stato umiliante, ma credo che esibizioni di questo tipo servano anche per rimetterti un po’ con i piedi per terra”. La parte più complessa è stata comprendere in poco tempo ciò che distingue un quartiere dall’altro, evidenziare le differenze tra i newyorchesi e capire dove a andare a incidere con le battute. Una sfida dietro cui si nasconde grande coraggio.
Ravenna, in città, ha però trovato anche aria di casa. A Salotto, una nuova realtà da poco aperta a Williamsburg, ha salutato un gruppo di italiani davanti ai quali si è esibito in un’ora di improvvisazione. “Vorrei dire buonasera Brooklyn, ma forse è più adatto buonasera Milano”, ha esordito tra le risate.
Con loro, emigrati all’estero, ha capito soprattutto quante differenze ci siano tra la comicità italiana e quella americana. “Se parliamo di libertà di espressione – spiega Ravenna – sono due mondi opposti. Negli Stati Uniti per dire cose forti devi costruirti uno status, mentre in Italia più cresci, più devi stare attento ai tasti che tocchi, perché hai ampliato il pubblico. Purtroppo da questo punto di vista il nostro è ancora un paese democristiano”.

Una differenza che intacca e rallenta la crescita del settore in Italia, dove chi riesce a fare business con la comicità si conta sulle dite della mano. Negli USA, invece, è tutta un’altra storia: i grandi della risata sono star acclamate come a Hollywood, protagonisti di tour da milioni di dollari. La loro è una comicità cruda e brutale, che rispecchia ciò che Ravenna ha visto in questi giorni di New York.
“È una città disumana in cui assisti quotidianamente a cose che ti portano a non fare più domande. Ognuno va per la sua strada senza interessarsi a ciò che accade intorno. È così anche sul palco: sei da solo e nessuno ti aiuta. Qui il concetto è che durante un’esibizione stai usando il tempo delle persone e sprecarlo è un peccato imperdonabile”.
Dall’esperienza degli States, Ravenna torna con molti appunti sul quaderno. “Ho imparato e sto imparando tanto. Spero, tornando agli spettacoli in Italia, di avere una maggiora consapevolezza della fortuna che ho ad avere persone che mi ascoltano. I comici in Italia non sanno quanto siano privilegiati ad avere tanti spettatori durante i loro pezzi: a New York me ne sono reso conto”.