Con André Paul Luotto (ribattezzato Andy) è un incontro memorabile. Uno straordinario ed istrionico personaggio da intervistare. Impossibile non essere travolti dalla sua energia e dalla sua vita da romanzo.
“Sono nato a New York il 30 luglio 1950. Mi ricordo solo una donna che urlava…”. E già da questo incipit si capisce che la nostra conversazione sarà surreale e fuori da ogni formalità. Condita da discorsi finanche strampalati, con zig zag inaspettati. E, soprattutto, si intuisce che sarà allietata da molte genuine risate.
Il papà di Andy Luotto, Eugene, ha origini siculo-piemontesi. La mamma, Beatrice Boccalatte, è una piemontese pura. Il primo è stato grande dialoghista, doppiatore e direttore di doppiaggio: ha curato il miglior cinema italiano per i mercati anglofoni (adattamenti, dialoghi e non solo doppiaggio). La seconda, una ricercatrice ed insegnante di Liceo, attivissima culturalmente. E con ben 5 lauree nel curriculum.
Iniziamo dalla tua famiglia di origine, Andy. Descriviamola meglio.
“Grazie a mio padre e alla sua professione, la nostra casa era frequentata da personaggi come Federico Fellini, Luchino Visconti, Sofia Loren, Marcello Mastroianni… un papà straordinario, che ha guadagnato tantissimo, impegnandosi per il cinema italiano all’estero. Mio fratello Steven è invece un grande sceneggiatore. Anche traduttore, per dirla tutta, che sembrerebbe un lavoro minore, ma non lo è affatto, se si lavora ai livelli in cui lo ha fatto e continua a farlo lui. Anche io sono stato dialoghista, pure su successi cult ed internazionali come Lo chiamavano Trinità di E. B. Clucher/Enzo Barboni. L’albero genealogico della mia famiglia è davvero particolare, e mio nonno Andrea ha un ruolo fondamentale: è stato il primo italiano in America titolare di una emittente radiofonica”.

Ma dai!
“Sì, e ne vado fierissimo. Il nonno, piemontese e bellissimo, a dirla tutta ha avuto la fortuna di sposare Ninetta Cavallaro, donna siciliana. Era lei che stendeva i testi dei discorsi che il marito doveva fare, e ne valorizzava l’immagine pubblica. Chiunque passasse da New York, doveva per forza di cose passare dalla radio del nonno, perché rappresentava la voce italiana. Gli ospiti erano tanti e di fama. Parlo di personaggi del calibro di Pirandello, Toscanini, Caruso. Una situazione pazzesca, a pensarci oggi. Un Pirandello che ad esempio recitava poesie scritte per gli emigranti. Riesci ad immaginarlo?

Questa radio è diventata, in breve tempo, punto di riferimento irrinunciabile per coloro che sbarcavano a New York. Orbene, il nonno divenne presto braccio destro del gloriosissimo sindaco Fiorello Laguardia. E chi voleva licenze in quei lidi, doveva passare dal nonno. Che si faceva chiamare Andrè. Un grande personaggio, che però aveva sempre alle spalle – non dimentichiamolo – mia nonna siciliana. Di Messina, per l’esattezza. Lui era bellissimo e dotato di savoir- faire non trascurabile, ma il vero segreto del successo di mio nonno è stata lei”.
Cosa succede, quando eri piccolo, nella tua famiglia?
“Mio papà e mamma divorziano. Li ho visti insieme solamente ad uno dei miei matrimoni e mi pare ad un battesimo. Cosa curiosissima. Io ho conosciuto papà a 14 anni, perché ho vissuto prima solo con mia madre. Ero già stato in riformatorio un paio di volte. E non accennavo a placarmi come comportamento fuori dalle righe. Avrei dovuto rimanerci fino a 21 anni, in riformatorio, allorchè mamma ad un certo punto ha detto forse è il caso che tu conosca tuo padre. Mio padre viveva in Italia. Arrivo con una valigia in mano dagli States. E porto con me anche il ricordo di questo nonno pioniere dell’etere. Sapevo della sua esistenza, ma l’ho conosciuto bene quando sono arrivato in Italia. Ho da raccontare una storia bellissima che riguarda nonna Ninetta Cavallaro. Sia quando ero in collegio che in riformatorio, mi veniva a trovare questa signora che si faceva chiamare Nonà, ma non sapevo che cosa significasse il termine. Nonà portava anche regali. Una volta messo piede in Italia, il tragitto dall’aeroporto fino a casa ricordo che fu traumatico per me. Papà aprì la porta di casa, e chi c’era lì davanti? Nonà! Insomma…era proprio lei, ed era la mia nonna vera. Per conservare il rapporto con me, si faceva vedere in America. Ti rendi conto? Solo una donna del sud riesce a mantenere certi legami difficili”.
Una volta giunto in Italia, come si sono modificati i rapporti con tua mamma?
“Mia mamma, alla mia partenza per andare a vivere con papà, rimase ovviamente in America, e venne in Italia molto più tardi. Circa un anno e mezzo dopo. Ha avuto una vita sentimentale molto turbolenta, va detto. Io scelsi alla fine di rimanere in Italia: in America mi avrebbero sbattuto nuovamente in riformatorio. Quando sono ritornato in America, molto tempo dopo, mio padre mi aveva trasformato radicalmente. Avevo tolto anche il fortissimo accento newyorkese, ed avevo finalmente letto qualche libro alla scuola internazionale che frequentavo. In più, sapevo vestirmi bene. I miei vecchi amici, quando mi hanno rivisto, non mi riconoscevano più. La perplessità ce l’avevano già osservando le giacche con i bottoni in pelle che indossavo. Si chiedevano cosa mi fosse successo in Italia per rendermi così diverso da come mi avevano conosciuto loro. Comunque, con uno di questi compagni, quello con cui mi ero messo nei guai quando vivevo a New York, sono ancora in contatto. Siamo rimasti amici. Lui ha vissuto in riformatorio, poi è andato sotto le armi e ha fatto il Vietnam. In Vietnam avrei dovuto andarci anch’io, ma ho ‘disertato’. Appena finita l’università in America, infatti, mi hanno chiamato per andare sotto le armi, ma non ci sono andato e sono tornato in Italia”.
Una vita che è un continuo peregrinare. Ricapitoliamo in breve.
“A 15 anni circa vengo via dall’America, con destinazione casa di papà a Roma. Poi, solo dopo un anno e mezzo, torno in America per le vacanze natalizie. Faccio il Liceo Internazionale a Roma, e ritorno in America anni dopo per frequentare l’Università di Boston. Non si direbbe a guardarmi…però ho due lauree: una in sociologia, ed un’altra in Comunicazione visiva. Dovrei, secondo gli studi, saper fare filmati didattici, pensa un po’! Sono intelligentissimo, ma nessuno ci crede”. (sorridiamo entrambi)
Le biografie in giro riportano che tu avresti una laurea in Cinematografia.
“Una notizia falsa: qualcuno lo ha scritto, ma non è affatto vero. Nelle vite molto ‘trafficate’ di eventi e situazioni, capita che siano diffuse anche notizie infondate. Come questa. Ho fatto in ogni caso tante, tante cose diverse nella mia vita: la mia tendenza al trasformismo, invece, la confermo”.
E poi come prosegue la vicenda?
“Prosegue così: tornando in Italia, avevo due lauree considerate inutili. Non esisteva una vera e propria Scienza della Comunicazione, all’epoca. Le mie lauree non avevano significato. Ho passato tanto tempo in collegio ed in riformatorio, e mia mamma non riusciva ad ‘addomesticarmi’. Lei stava sempre a lavorare, insegnava, faceva ricerche. Una grande testa da studiosa. Io ad undici anni scappavo già da casa, e stavo fuori anche dieci giorni. Ero ingestibile. Vivere con papà in Italia mi ha salvato”.
Attore, comico, cuoco. Quale definizione pensi ti appartenga di più?
“I primi due appellativi, attore e comico, sono titoli che mi hanno affibbiato altri, e che spero di poter meritare. Personalmente, mi sento molto più cuoco. Il mio cuore sta dietro le padelle”.
Parliamo allora di Andy cuoco.
“Sono diplomato alla scuola Alberghiera di Castellana Grotte, in Puglia. E sono pure un cuoco bravo. Se quello che io cucino piaccia necessariamente, è un’altra faccenda. Le regole della cucina ed il mestiere, però, li conosco bene”.

A che età hai scoperto l’arte dei fornelli?
“Appena arrivato in Italia, si stava seduti al prestigiosissimo tavolo di papà insieme ad ospiti incredibili del tenore di cui ho già detto ad inizio chiacchierata. Io, però, si dà il caso che non parlassi italiano. Non avevo cognizione effettiva di chi fossero davvero certi commensali. Papà parlava, vedevo in casa questi ospiti, ma di loro sapevo solo che erano famosi. Null’altro. Papà capiva il mio disagio e mi sistemava sempre a mangiare in cucina con la servitù. La governante di casa Luotto si chiamava Maria Illuminati, a cui ho dedicato il mio primo libro. Un giorno Maria mi dà un pezzo di pane in mano, mi porta ai fuochi dei fornelli e mi fa intingere il pezzo di pane nel sugo che stava cucinando. E’ stato scoprire un paradiso. Mai avevo mangiato cosa più buona. Il tutto è andato avanti per un bel po’ di tempo. Un giorno, Maria mi blocca la mano che si stava avvicinando alla solita pentola, ed io ho pensato: Cavolo, non me lo fa più fare! Io – ripeto – non parlavo l’italiano, e lei non parlava inglese. Nell’universale linguaggio dei gesti, però, Maria mi fece capire che il pezzo di pane non andava messo al centro della padella, bensì sui bordi. Ebbene, ho immediatamente pensato: Voglio dedicarmi a questa cosa per sempre. Ho deciso così di iniziare a fare cose buone da mangiare. La mia follia possiamo dire che nasce dalla scarpetta”. (ancora risate)
Rivolgiamoci adesso un po’ all’Andy attore e comico. Di come sei diventato noto al grande pubblico con Renzo Arbore. Al riguardo, è una leggenda o è vero che sei stato scoperto da lui in un mercato rionale?
“La faccenda è andata così. Io tornavo dal sud del Sudan: il periodo era quello in cui ancora mi dedicavo a fare filmati didattici. Il mio socio italiano scappò con tutti i soldi. Mi abbandonò in Africa, in mezzo al nulla”.

Ma dici sul serio?
“Certo! Il Ministero dell’Educazione capì fortunatamente che non c’entravo niente con la truffa e mi fece tornare in Italia. Parlo del 1976, se non erro”.
E quindi?
“Quindi sono tornato in Italia con – cifra di allora – 35 milioni di debiti. Un debito enorme: con questi soldi ci compravi all’epoca due case! Avevo un amico vicino Parma. Erano gli inizi delle televisioni private a Roma. Questo amico aveva una fabbrica che produceva oggetti in plastica. Io ho tolto i sedili al mio Ford Transit, sono andato sù dal mio amico ed ho riempito il Ford Transit con buste per l’immondizia. Andavo in giro per i mercati col megafono a fare il venditore urlatore e a trattare i prezzi di vendita con chiunque incontrassi: Dammi mille lire…dammi mille lire! Come non ce l’hai, mille lire? E quanto hai? Cinquecento lire? Non dire che non hai nemmeno cinquecento lire! Quanto hai? e così via. Erano buste di immondizia che io pagavo pochissimo. Da lì ho fatto ‘carriera’: scolapasta, scopini per il cesso, tutte cose in plastica. Dicevo prima che erano gli inizi delle televisioni private. E’ venuta ad un certo punto una troupe di una televisione di cui neanche ricordo il nome. Mi fecero un filmato mentre io facevo str…..e, perché io sono cretino di natura”.
E dai, non farmi ridere così tanto!
“Giuro. E adesso torno serio. Orbene, questo filmato è andato in onda per mesi. Diventò quello che oggi si chiamerebbe un cult. Tra i gruppi dove è circolato il filmato, parliamo di presenze come quelle di Boncompagni, Villaggio, Corbucci. Inizia pertanto a diffondersi la vicenda che c’è un matto che gira nelle piazze. Renzo Arbore mi rintraccia. Pensa che io non avevo, allora, neanche il telefono a casa. A Castelnuovo di Porto, dove abitavo, si affaccia un ragazzo che lavorava ad un bar locale. Il suo nome era Enrico. Mi dice: Vieni, ti sta chiamando Renzo Arbore. Vado al bar, faccio il numero. Renzo mi dice: Ma tu sei un comico? Io gli rispondo: Ma come ti permetti? Lui replica: Ti piacerebbe fare televisione con me? Ed io: In base a che cosa? Renzo insiste: A quelle cose che fai. In breve : dico Va bene. Grazie. Ci sentiamo. Arbore non mi ha richiamato fino al 1978, circa un anno dopo quella telefonata. La prima cosa che ho fatto con lui è stata, nel 1979/1980, L’altra domenica, e quella che ho fatto io (non le prime versioni del programma) è diventata davvero conosciuta. C’erano le Sorelle Bandiera, Milly Carlucci, Isabella Rossellini, Roberto Benigni… gente che poi è diventata nota. Doveva succedere qualcosa per forza con quel cast lì, lo si intuiva. Ci inventammo il personaggio del cugino di Renzo Arbore che viene dall’America. Renzo è sempre stato ‘americanofolo’. L’idea ebbe successo, ed io ero impreparato. Avrei voluto continuare con i miei documentari, con la cucina (perché già allora, come oggi, cucinavo in giro per l’Italia). Quando è arrivata la notorietà, la gente mi fermava per strada. Poi è arrivato il programma travolgente Quelli della notte, nel 1985. In mezzo, tra il 1979 ed il 1980, ci sono stati sbagli professionali enormi da parte mia, perché mi offrivano dei film terribili di bassa qualità, ma ben pagati. Ho accettato di tutto. Il primo film, che rientra nella categoria tra i più brutti film della storia della cinematografia mondiale, si intitolava Super Andy il fratello brutto di Superman. Mi venne detto che, essendo il mio primo film, mi potevano pagare ‘solo’ 80 milioni di lire. Ottanta milioni? Ma facciamoli subito cinque o sei di questi film! risposi io. Non capivo allora che cosa significasse davvero la popolarità. Cosa significasse soprattutto avere un valore. Inoltre, il cabaret a me veniva spontaneo. Mi chiamavano i locali e la gente rideva. Mia madre: Ma che cosa dici alla gente? E mio padre chiedeva la stessa cosa: Ma cosa gli racconti? Ed io rispondevo a papà: Ti ricordi quando a tavola mi dicevi di stare zitto, perché ridevano tutti? Io racconto quelle cose lì”.
E’ proprio vero che l’arte prende spunto dalla vita, e alla vita vera si ispira!
“Direi di sì. Pensa anche che a Quelli della notte impersonavo un personaggio di nome Armand, meteorologo musulmano. Ad un certo punto ricevo addirittura minacce di morte. Sono stato picchiato due volte, e sono andato in giro per mesi con la protezione della Digos, come fossi un criminale. E’ stato un momento terribile, dal quale sono venuto fuori, fortunatamente, in modo abbastanza egregio. Un giornale italiano di cui non ricordo il nome mi ha invitato a fare una tournée nei Paesi arabi, con il fine di chiedere perdono. Non sapevo perché dovessi farlo, perché io in realtà non avevo fatto niente. Dal momento, però, che sono un vecchio hippy, voglio bene a tutti, non ho nessuna forma di razzismo nei confronti di nessuno, accettai di andare in Libia a chiedere perdono. Ho dato la mano anche a Gheddafi, sai. Ho recitato in un loro teatro comico …insomma, alla fine mi hanno levato la fatwa”.
Più si ascoltano i tuoi racconti di vita, e più si è sicuri di avere l’occasione di assistere ad una vita da romanzo. Hai fatto proprio di tutto.
“Decisamente. Mi sono improvvisato anche cantante, pensa. Ho pubblicato due album e cinque singoli. Un’altra delle cose di cui ti parlavo prima: il non saper gestire bene la popolarità. Talvolta i produttori sono pessimi, e ti fanno fare qualunque cosa. Ti convincono che sei bravo pure a cantare, e tu – fesso – ti convinci che lo sei. Così è capitato a me. Ho una tendenza musicale, ma tra questo ed essere cantante esiste un abisso. In ogni caso, confermo che nella vita ho fatto veramente di tutto. Ad un certo punto, mi sono anche allontanato dal mondo dello spettacolo, ed ho lavorato come istruttore subacqueo ed anche come uomo immagine per WWF!” (ancora ridiamo insieme)
Quanti possono vantare questo eclettismo? Incredibile!
“Aggiungo un racconto buffo sui documentari che ho fatto in Africa ed in Amazzonia. All’epoca di una mia collaborazione con Giovanni Minoli, a Rai 3, avevo chiesto un interprete. Il mio si chiamava Stefano Orselli. Minoli mi disse di non averne sentito parlare, e mi chiese ulteriori notizie su di lui. Risposi che era sordomuto. Minoli pensò che io scherzassi. Io invece risposi: Chi meglio di lui, visto che deve comunicare con tutti? Quando arrivavo in un posto, Stefano mi metteva la mano sulla gola, mi leggeva le labbra e sentiva le vibrazioni. Io gli dicevo in questo modo cosa fare, e Stefano faceva. Alla fine di ogni permanenza con qualunque tribù, facevo un piatto di spaghetti al pomodoro. Ovunque mi trovassi. Da qualche parte esiste un filmato bellissimo con una tribù di Pigmei con la quale faccio questo piatto di spaghetti. Sotto la foglia di un banano, ho insegnato alla tribù a dire una frase: Porca vacca…e loro ripetevano Porca vacca. E poi ancora io: Manca il basilico! E loro, ad eco: Manca il Basilico! Ai pigmei ho insegnato a dire questo, giuro! (risate, risate, risate)
Questi documentari a chi li vendevi ?
“A Rai 3. Il programma era Il viaggiatore. Il Titolo originale era Mi ci hanno mandato”.
Con te, impossibile non sorridere, e questa si sta rivelando una intervista troppo divertente. Hai fatto anche lo scrittore. Della tua carriera cinematografica, che cosa salveresti? Forse Grunt, che hai diretto ed interpretato con anche Giorgio Faletti?
“No, anche quel film rientra tra i dieci film più brutti in assoluto. Salverei I giudici, dove ho avuto l’onore di interpretare Paolo Borsellino. Un film del 1998 diretto da Ricky Tognazzi. Oppure Romeo e Giulietta, miniserie televisiva in due puntate, diretta da Riccardo Donna, dove ho interpretato Frate Lorenzo. Pure la serie televisiva con Francesco Pannofino e Pietro Sermonti, Nero Wolf, mi è piaciuto farla. Nel mio carnet esistono anche cose belle, dai. Mi ritengo in ogni caso molto fortunato, perché i miei lavori sono rimasti nel cuore della gente. Tra questi, sicuramente, le cose che ho fatto insieme a Renzo Arbore”.
Lo senti ancora, Renzo Arbore?
“Sì, sì, nelle feste ci sentiamo. Sono io ad essere abbastanza orso di natura. Buoni rapporti mi sono rimasti sicuramente con Maurisa Laurito, Gigi Telesforo, Antonio e Marcello, Claudio Simonetti”.

Il tuo rapporto con i soldi?
“Nella mia carriera ho fatto tutto, tranne che i soldi. All’inizio in realtà li ho avuti, ma non gli ho dato valore. Volevo fare altre cose. La popolarità storpia tutto: il rapporto con le donne, ad esempio. Io mi vedo ovviamente allo specchio, e so benissimo che il terreno in rosa è stato per me sempre una conquista. Dovevo faticare. Cucinare benissimo, ad esempio. O far sorridere. Con il successo della televisione, invece, erano le donne che venivano da me. Mi sentivo come Zeus, anche se questa euforia è passata poi abbastanza in fretta, perché era venuta a mancare la gioia della conquista”.
E in amore oggi come va, Andy?
“Bene. Sto da oltre trent’anni con Antonella”.
Figli?
“Sì, ne ho. Un figlio con la seconda unione lunga che ho avuto nella mia vita, e due figli con Antonella: il maschio, che è allenatore di pallanuoto femminile, tra l’altro di grande successo; una figlia femmina in adozione, che è al primo anno di Università. E che mi ha cambiato la vita: è il mio amore grande”.
Quand’è l’ultima volta che sei stato a New York?
“Un anno fa”.

Ci torni spesso in America?
“No. Ho nostalgia però di alcune cose mangerecce, buonissime, che si trovano in America. Non è vero che da quelle parti si mangia tutto in scatoletta. Mi mancano, ad esempio, i delicatessen ebraici. Gli ebrei hanno una cucina particolare. Poi, amo la cucina del Sud. Nella Louisiana. L’America in sé, invece, non mi manca particolarmente. Se mi chiedono chi sono, rispondo sempre un aspirante terrone”.
Tua mamma è ancora viva al momento di questa intervista, ed ha 98 anni. Altri parenti in vita?
“Adesso ho solo cugini. Stanno proprio a New York. E anche in California. In America dovrei tornarci più spesso. Mi piacerebbe fare un viaggio lì con i miei figli: è un sogno che ho”.