“L’ho conosciuto nel 1939, era appena arrivato dalla Pennsylvania. Convinto, come tutti gli italiani all’estero, del fascismo e dei suoi destini; ma gli erano bastate poche settimane per disilludersi e adesso troviamo il suo nome, Renato Berardinucci, a capo di una lista di fucilati”. L’articolo pubblicato il 20 dicembre del ’44 su Risorgimento liberale è firmato Ennio Flaiano. Uno dei pochi a tratteggiare, come testimone oculare per di più, la vita breve, avventurosa e tragica dello studente nato nel 1921 a Filadelfia da genitori abruzzesi. Un idealista diventato eroe (o antieroe) per scelta e per caso, morto a 23 anni in nome della patria assediata. La sua parabola a lungo dimenticata è riemersa da carte ingiallite, dagli archivi di Ellis Island e dai racconti rintracciati dallo storico Marco Patricelli, docente universitario, cavaliere della Repubblica, insignito del titolo di Bene Merito dal governo polacco e premiato dall’Istituto della memoria nazionale di Varsavia. Patricelli, indagatore di fatti e misfatti della Seconda guerra mondiale sul fronte italiano, è l’autore de Il partigiano americano edito da Ianieri. Un libro che è insieme romanzo, tributo e risarcimento.

Chi era Berardinucci?
“Un giovanotto made in Usa, famiglia benestante, studente modello in equilibrio tra emigrazione, orgoglio nazionale e melting pot. Le radici erano lontane ma vive, il fascismo era arrivato in America violando sulle ali luccicanti della squadriglia del trasvolatore Italo Balbo. Gli italiani d’oltreoceano ne erano ammaliati. Eppure incombeva la guerra. Così mamma Antonietta decise di portare quel suo figlio nella terra degli avi: aveva 18 anni e non sarebbe mai più tornato a Filadelfia”.
Perché questa scelta?
“Voleva che il ragazzo unisse la formazione del college alla cultura classica. E arrivavano minacciosi i venti del conflitto mondiale: la doppia cittadinanza gli avrebbero evitato la chiamata alle armi, qui e là”.

Come fu il suo impatto con l’Italia?
“Arrivò con la mamma a Pescara, assurta da poco a provincia per merito di Gabriele d’Annunzio. Ma nonostante il titolo si trattava di una realtà arretrata. Per raggiungere la vecchia casa di famiglia nella campagna di Picciano bisognava percorrere una strada polverosa, fra cavalli e somari. Berardinucci si iscrisse al liceo classico dove divenne subito amico dello studente più brillante: Hans Lichtner, ebreo fuggito da Vienna e dalle persecuzioni razziali. Fu lui ad aprirgli gli occhi sulle menzogne della propaganda di regime”.
Quando decise di schierarsi con l’antifascismo militante?
“La svolta è legata alla mattina del 31 agosto 1943. In quel giorno d’estate, l’apocalisse sconvolse Pescara e la sua vita: gli aerei americani Liberator sganciarono 85 tonnellate di bombe. Fu un massacro, replicato due settimane dopo da un altro raid devastante. Per il giovanotto venuto da Filadelfia fu il punto di non ritorno, tra patria di sangue e patria d’adozione”.
Entrò in clandestinità?
“In paese reclutò il fabbro, il manovale, il contadino, il fornaio, il sarto, il maestro di scuola. Una piccola armata improvvisata e senza mezzi. Niente nomi di battaglia per il gruppo, era una Resistenza paesana: per tutti fu la banda de lu miricane”.
Niente a che vedere con i partigiani della Brigata Maiella?
“Tutt’altra cosa. Quella era un’unità regolare che combatteva nei ranghi del corpo d’armata britannico e polacco, capace di scrivere una pagina esaltante nella guerra di liberazione. Patrioti partiti dall’Abruzzo e arrivati fino in Veneto. L’unica formazione decorata con la medaglia d’oro al valor militare, mai sconfitta, ammirata dagli Alleati e temuta dai tedeschi. Eppure il coraggio della banda Berardinucci non fu da meno”.
Merito del capo?
“Berardinucci era irrazionale, temerario, teatrale nelle sue imprese. Gli piaceva travestirsi: con un trucco sottrasse i fucili dall’armeria tedesca di Penne. Flaiano spiega che sulla sua testa pendeva una taglia perché uccise un alto ufficiale tedesco, affrontando da solo un’auto militare nemica”.
L’Abruzzo era l’epicentro degli eventi?
“Il re fuggito dal porto di Ortona, Mussolini prigioniero a Campo Imperatore sul Gran Sasso, la linea Gustav che spaccava a metà la regione. E poi l’arrivo dei liberatori polacchi. La Storia si è fatta lì”.
Guerra finita?
“Non per Berardinucci. Cocciuto ed entusiasta, si mise in testa di risalire la penisola. Lo seguirono in tre. E attraversata da un presentimento lo seguì anche sua madre, che lo scongiurava di desistere. Il destino li aspettava a San Pio delle Camere, paesetto dell’Aquilano. Un uomo tradì Renato per cinquemila lire e cinque chili di sale: i quattro furono immediatamente condannati alla fucilazione e messi al muro la mattina dell’11 giugno 1944 ad Arischia. Mentre la madre di Berardinucci, implorante, impazzita per il dolore, veniva orrendamente pestata dai soldati tedeschi”.
Un epilogo annunciato?

“La medaglia d’oro al valore recita: <Con un gesto di sublime follia si scagliava armato soltanto della volontà e della fede contro il plotone d’esecuzione, dando a se stesso la morte degli eroi, ai compagni la salvezza e la libertà>. Un gesto estremo, eroico e teatrale com’era nel suo stile. Berardinucci aveva 23 anni e dieci giorni. Due compagni fuggirono. Il terzo morì con lui: Vermondo Di Federico, il bracciante ragazzino trucidato con addosso la divisa del regio esercito, l’unico abito che possedeva”.
Lei ha ricostruito una coda drammatica di quell’evento.
“Nella primavera del ’57 il padre di Renato, Vincenzo Berardinucci, sbarcò in Italia per ricevere l’onorificenza e la pergamena dal presidente Gronchi. Poi si fece portare su una Fiat 1100 nera a San Pio delle Camere, accompagnato dal cognato Antonio De Massis e dall’autista: voleva uccidere la spia fascista che aveva tradito suo figlio. Tutti in paese ne conoscevano il nome, ma l’impiegato comunale falsificò le carte per impedire che scorresse altro sangue. Quell’uomo è morto, gli dissero. E tutto finì senza vendetta”.
Perché si è occupato di Berardinucci?
“Perché la sua vicenda non è finita sui libri. Di lui è rimasta solo un’unica fotografia. Non esistono documenti in Italia né all’estero, o perlomeno non sono mai emersi. I testimoni dei fatti non ci sono più. Un fantasma. Un ragazzo partito dalla Pennsylvania, un partigiano americano venuto a morire in Italia per l’Italia. Ho sentito doveroso occuparmene”.

C’è ancora una storia nella storia, professore: la sua.
“Renato Berardinucci si nascondeva in casa della mia prozia Nicoletta. E l’uomo che guidava la Fiat 110 si chiamava Lucio Patricelli. Era mio padre”.