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January 15, 2021
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Conversando a Trieste di Dante e America con Fabio Finotti, in partenza per New York

Incontro con il nuovo direttore dell'Istituto Italiano di Cultura nella città che si sente più italiana e che proprio gli americani salvarono nel 1945

Elisabetta de DominisbyElisabetta de Dominis
Conversando a Trieste di Dante e America con Fabio Finotti, in partenza per New York

Fabio Finotti (Immagine Harvardiana)

Time: 3 mins read

Trieste. L’appuntamento con il professor Fabio Finotti è al caffè degli Specchi in piazza Unità d’Italia. E’ l’11 gennaio eppure la piazza è ancora delimitata dagli alberi di Natale e, mentre la attraverso, sento la melodia di Jingle Bells. E penso: qui la festa non finisce mai. Ma quale sarebbe stato il destino di Trieste se non fosse stata liberata dagli americani? Il 12 giugno 1945, dopo 40 giorni di occupazione, gli alleati scacciarono i comunisti jugoslavi e protessero il Territorio Libero di Trieste per dieci anni, dopo la Seconda guerra mondiale. Solo il 26 ottobre 1954 Trieste ritornava all’Italia. Chi ha vissuto a Trieste nel dopoguerra conserva un sentimento di riconoscenza verso gli americani che diedero lavoro ai triestini, aiutandoli a far ripartire economicamente una città a soli dieci chilometri dal confine con la Jugoslavia comunista.

Trieste, piazza dell’Unità d’Italia

Sebbene Trieste si senta la città più italiana d’Italia – perché l’italianità, a causa della sua posizione geografica, se l’è dovuta conquistare e sbandierare sempre – è stata una città multietnica da fine del ‘700, quando divenne il porto dell’impero austroungarico. Di cui ha mantenuto lo spirito cosmopolita. I confini ai triestini stanno stretti, forse anche perché l’orizzonte della sua meravigliosa piazza è sul mare. Un limite che non ha limiti.

Fabio Finotti, nuovo direttore dell’Istituto italiano di cultura di New York

Fabio Finotti, docente di letteratura italiana all’Università di Trieste, è in partenza per New York. Il ministro degli Esteri Di Maio l’ha nominato direttore di chiara fama dell’Istituto italiano di Cultura. Padovano di nascita, ma triestino d’adozione, dal 2005 è stato visiting professor all’Università di Pola, in Croazia, insegnando pure per vent’anni alla Penn University di Philadelphia, di cui è professore emerito. Ha fatto proprio il concetto che il mare non divide, ma unisce i cuori lontani. Ecco che Trieste manda un pezzetto del suo cuore a Nuova York, come la chiamava mio nonno che faceva la rotta atlantica, per rimarcare che arrivava da una città nuova e per questo senza dolore. E Finotti vi porterà la cultura italiana, ma pure la speciale cultura di frontiera che è quella triestina, dove la letteratura ha scavalcato i confini navigando per secoli tra le due sponde dell’Adriatico.

“Così come i pesci nuotano nel mare – Finotti cita Dante del De Vulgari Eloquentia – io mi sento cittadino del mondo”. E aggiunge: “Gli americani amano la lingua italiana, come gli inglesi nel XVI secolo, tanto che il primo vocabolario della lingua italiana con 44 mila parole, A World of Words, fu pubblicato a Londra nel 1598 da John Florio”. Mi spiega che gli americani prediligono Dante, perché ha fatto l’Italia, e Primo Levi per il suo impegno civile nel parlare dell’olocausto.

“Nelle università americane vi sono molti autori italiani più studiati che in Italia, mentre i poeti sono poco compresi e vengono trascurati. La cultura americana è molto scientifica, ama procedere per verifiche, si aspetta una conclusione chiara; mentre quella italiana si basa sul dialogo socratico. Non si sa mai dove si arrivi e chi alla fine abbia ragione. Ma il pregio del dialogo è che permette di ascoltare l’altro e ribattere, lascia sempre una possibilità di risoluzione pacifica: c’è sempre una strada da poter imboccare ancora. Offre comprensione e promette speranza. La letteratura italiana insegna che la vita è un processo che non finisce mai”.

La facciata dell’Istituto Italiano di Cultura a NY (iicnewyork.esteri.it)

Il professore mi racconta che ha presentato al Ministro un programma basato sul dialogo da realizzare nella Grande Mela per far conoscere letteratura, arte ed economia italiane. “Voglio dare priorità al dialogo generazionale, per riavvicinare i giovani ai più anziani, in modo da risaldare il rapporto di solidarietà. I giovani devono conoscere la storia dei loro padri: senza memoria si affoga nel presente. Del resto siamo entrati in un momento culturale diverso anche per gli Stati Uniti: è stato eletto Biden, un uomo avanti con gli anni perché la sua età ispirava fiducia, competenza e saggezza. Organizzerò incontri tra italiani e italici, quest’ultimi non sono italiani per nascita ma per vocazione, per scelta culturale. E all’Istituto ci sarà “la stanza dei bambini” dedicata alla narrazione delle fiabe italiane. La letteratura insegna ad affrontare meglio la vita”.

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Elisabetta de Dominis

Elisabetta de Dominis

Detesto confondere la mia vita con un curriculum. Ho ballato e sognavo di nuotare, ho nuotato e sognavo di cavalcare, ho cavalcato, studiato, mi sono laureata mentre facevo la stilista e sognavo di fare la giornalista, ho collaborato con una ventina di testate nazionali, diretto una rivista, ho fatto l’esperta di quasi tutto, dal food al fashion al sex, ho viaggiato e sempre volevo essere da un’altra parte, libera di inseguire l’ultimo sogno.

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