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Columbus Day: celebrare il genio italiano in America senza offendere più nessuno

Devono essere gli italoamericani stessi a trovare la soluzione giusta al dilemma di come poter restare orgogliosi delle proprie radici culturali in America

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Being Italian American: Why Columbus Day Gives Me a Headache

Christopher Columbus and Mother Cabrini (Illustration by Antonella Martino )

Time: 7 mins read

Per anni, ad ogni Columbus Day, mi sentivo come fossi protagonista di un episodio dei Sopranos. In particolare quello dove Tony entra in cucina e c’è la moglie Carmela che discute col figlio di Cristoforo Colombo. Anche a me, ogni volta che dicevo ai miei figli “Happy Columbus Day”, mi guardavano come se avessi bestemmiato: “Oggi semmai è Indigenous People’s day, Colombo era un assassino”. A quel punto si scatenava la discussione, io mi sentivo appunto come in quell’episodio di Tony Soprano, cercando di spiegare ai miei figli che non sempre tutto è giusto o sbagliato, che Colombo era un uomo calato nel suo tempo e non lo si poteva giudicare con il metro dei valori di oggi… Mentre loro mi elencavano i crimini commessi nei confronti dei nativi da Colombo durante l’occupazione delle isole in cui sbarcò – crimini che sono anche documentati da lui stesso –  io replicavo che secondo il loro metro di giudizio, pure George Washington, possessore di schiavi dovrebbe essere ripudiato e con lui tutta la storia americana… Il litigio finiva spesso fuori controllo e l’umore della giornata, almeno il mio, rovinato. Insomma non un bel ricordo dei Columbus Day degli ultimi 15 anni!

Oggi i miei figli hanno 23 e 22 anni. Per la pandemia mia figlia è tornata a vivere a casa, ma questa mattina non le ho detto “Happy Columbus Day”, non ne ho avuto il coraggio. Sapevo quale sarebbe stata la sua risposta, probabilmente ancora più forte. Allora mi sfogo qui e speriamo che un giorno entrambi leggano le ragioni del papà senza più dargli così addosso.

Quest’anno il Columbus Day cade il 12 ottobre, cioè proprio il giorno in cui Colombo “scoprì” l’America. Da tanti anni ormai l’America celebra il Columbus Day il secondo lunedì del mese, ma prima lo festeggiava solo ogni 12 ottobre. L’America, forse meglio dire mezza America ormai… Molti stati e metropoli dell’Unione, da almeno trent’anni, hanno cambiato il nome con “Giornata delle popolazioni indigene”. New York ancora non lo ha fatto, sicuramente perché gli italoamericani rappresentano per numero uno dei gruppi etnici più grandi. Eppure i miei figli, italoamericani di New York, sono nettamente contrari all’uso di “Columbus Day”, e nella loro generazione, penso che la pensino al 90% come loro. Quindi sarà solo una questione di tempo e anche qui a New York si dovrà dire addio al Columbus Day.

Il governatore Andrew Cuomo, orgoglioso italoamericano, anche se quest’anno non si sfila sulla Quinta Avenue, ha accettato di essere il Grand Marshall e ha fatto già un discorso via video sul significato della Festa. Poi, con intelligenza, oggi inaugurerà a Manhattan un nuovo monumento. Ma non sarà dedicato a Colombo. Ci torniamo più sotto.

Intanto il Presidente Donald Trump, ha diramato dalla Casa Bianca una sua proclamation ufficiale, quella che fanno tutti i presidenti, ma lui è Trump: pensa sempre e solo a se stesso e alla sua campagna elettorale, ha quindi esagerato facendo i suoi calcoli sui diversi gruppi tra chi continua a festeggiare Colombo e chi invece, sentendosi offeso, ha già cambiato il nome della festa: nel proclama di Trump si attacca a tutta forza il “revisionismo” e chi butta giù le statue. Colombo, per Trump, non si deve toccare. Ma il presidente, a mio parere, avrebbe dovuto nel messaggio a favore del Columbus Day, ricordare comunque anche le sofferenze degli indigeni, come hanno fatto in passato altri presidenti. Invece no, Trump ha fatto come fa sempre: ci sono solo amici e nemici, senza possibilità di mediazione.

A una mia cara amica colombiana, collega all’università dove insegno, ho chiesto non tanto tempo fa come in Colombia  si festeggi il 12 ottobre: con il Columbus Day? No, è “Dia de la Raza”, (il giorno delle etnie) mi dice. Cioè nel paese del mondo che prende il nome dall’esploratore italiano, non c’è il “Columbus’ Day”. Me lo ha detto senza alcun risentimento nei confronti di Colombo, anzi, lei mi ha fatto capire che la pensa un po’ come me, “un uomo del suo tempo”. Insomma in Colombia, a quanto pare, si riesce a riconoscere i meriti dell’esploratore ma allo stesso tempo le terribili sofferenze che la sua “scoperta” portò alle popolazione native d’America.

Ribadisco che io, da italiano in America, contro Cristoforo Colombo non posso aver nulla, semmai mi resta ancora l’ammirazione per come riuscì a portare a termine un’ impresa, allora, ritenuta rischiosa o quasi impossibile. Certo, non arrivò in India come pensava, ma riuscì con quelle sue sgangherate tre caravelle a scoprire “un nuovo mondo” e cambiare il corso della storia dell’umanità. Un uomo del suo tempo che non si può giudicare soltanto con il metro di giudizio di oggi, anche se mi sembra giusto e doveroso continuare a studiarne la figura sotto la lente della storia: quante le possibilità, se ci furono, che il rapporto tra gli europei con le popolazioni indigene d’America potessero svilupparsi in modo diverso? Quanto il carattere e le decisioni dell’ammiraglio genovese influirono e quanto con lui, o senza di lui, la storia di questo rapporto sarebbe comunque andata come alla fine andò? Cioè riconoscere il ruolo di Colombo nella sua impresa senza temere di farne i conti con la storia – che è revisionista per definizione – non è una scelta, ma un dovere per tutti, non solo per gli italiani d’America.

Qui mi premeva però sottolineare il rapporto della comunità italoamericana con il navigatore genovese e, se possibile, cercare una strada che possa farci uscire tutti da questa trappola in cui ci siamo cacciati nello schierarci per o contro il Columbus Day.

Come Wolfgang Achtner ha ricostruito bene l’anno scorso in un lungo servizio per La Voce di New York che oggi riproponiamo, bisogna capire bene le ragioni che determinarono l’attaccamento così profondamente emotivo degli italoamericani alla figura di Cristoforo Colombo, ragioni che ritengo ben valide. Nel 1892, quando la celebrazione della festa fu per la prima volta proclamata dal presidente degli Stati Uniti, era da poco accaduta una enorme tragedia: il più grande linciaggio della storia degli Stati Uniti. A New Orleans degli immigrati italiani, quasi tutti siciliani, erano stati trucidati dopo che un regolare processo li aveva ritenuti non colpevoli dell’omicidio del capo della polizia. (Per chi volesse vedere un film con una buona ricostruzione degli eventi, su youtube troverà della HBO il film “Vendetta”, con Christopher Walken).

Allora si era sul punto quasi dello scoppio di una guerra tra gli USA e l’Italia per quel terribile eccidio, così l’amministrazione americana trovò, nelle celebrazioni di un personaggio storico come Cristoforo Colombo, che aveva “scoperto l’America”, un modo per rimediare all’ingiustizia e far sentire più accolte – almeno dalle autorità – le masse degli immigrati italiani che iniziavano la loro vita negli USA tra discriminazioni e violenze.

Ricordo questo per dire che non si può giudicare questo attaccamento di generazioni di italoamericani alla figura di Colombo senza capirne la storia di sofferenza e riscatto della loto vicenda in America. Colombo rappresenta il simbolo della loro assimilazione negli USA, colui che li aiuta al passaggio dall’essere dei “dagos” da poter impiccare impunemente ai lampioni di New Orleans, a degli americani di origine italiana finalmente accettati e che in un secolo riusciranno a scalare le vette della nuova patria fino ad arrivare alla Corte Suprema o alla presidenza del Congresso degli USA (Casa Bianca? Chissà quando…).

Detto questo sulle ragioni dell’attaccamento degli italoamericani a Colombo, però devo anche ammettere che i miei figli e tutti gli americani delle nuove generazioni non hanno torto nel voler riconoscere le sofferenze di altrettanti milioni di americani che continuano a sentire nelle loro viscere e nel ricordo dei propri avi, dolore e disgusto ogni volta che sentivano festeggiare nel nome di Colombo.

Un dilemma non da poco: che fare quindi per poter celebrare degnamente nel XXI secolo l’orgoglio di essere americani di origine italiana negli Stati Uniti senza dover con questo offendere altri americani?

Io credo che si debba cominciare a celebrare più non la storia di un individuo ma più l’influenza del “genio” italiano in America. E qui, senza cacciare Colombo ma assimilandolo ad altri geni italiani riconosciuti in tutto il mondo. Cioè il contributo che gli italiani hanno dato all’America non dovrebbe essere ridotto a quello di “scoprirla”, ma semmai e col tempo, ad aver immensamente contribuito a renderla migliore. E allora fa bene per esempio il governatore Andew Cuomo, oggi, ad andare a scoprire il monumento a Madre Cabrini, un altro genio italiano, la protettrice degli immigrati. E ci sarebbero tanti altri, da Amadeo Giannini (fondatore delle Bank of America) a Frank Capra (genio del cinema) e così via tanti altri… Ma se si pensa che Colombo dopotutto non mise mai piede sull’attuale territorio degli Stati Uniti, il genio italiano che influenzò la cultura occidentale in genere e quindi anche quella americana, può essere allargato e celebrato anche in America, da Dante a Galileo, da Leonardo a Michelangelo, da Verdi a Fellini.

Sogno quindi di poter ammirare, insieme ai miei figli, una sfilata sulla Quinta Avenue, il 12 ottobre o comunque ad ottobre, il mese in cui si celebra la cultura italiana in America,  dei carri che non inneggino solo a Cristoforo Colombo, ma a tutti i simboli della genialità italiana, in modo che anche chi si sente offeso dall’attaccamento degli italoamericani alla figura dell’esploratore genovese, capisca che in fondo, si celebra qualcosa di ben diverso dalle sue imprese: nel “Italian Genius Day”, si celebra l’orgoglio di appartenenza ad una cultura che ha contribuito, a costo di enormi sacrifici, a rendere gli Stati Uniti il grande paese che sono.

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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