George Pavia, primo avvocato italiano in America per molti decenni è morto a New York a 92 anni. Si apre sempre un vuoto quando un membro della nostra comunità viene a mancare e nel caso di George il vuoto è grande. A parte la dedizione al suo studio, George è sempre stato infatti impegnato in prima fila nei più diversi affari italiani in America; oltre al mondo del business amava prestare il suo servizio a missioni filantropiche. Ha visto nascere ed ha sempre sostenuto il GEI, Gruppo Esponenti Italiani, dove ha servito nel consiglio fino a qualche anno fa; ha contribuito al lancio dell’American Italian Cancer Foundation dove fu di nuovo membro del consiglio e appoggiò innumerevoli altre attività che avevano a che fare con le relazioni bilaterali. Anche per questo fu insignito del titolo di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. La sua storia personale non fu facile, una storia che ci riporta molto indietro nel tempo.
George Pavia nasce a Genova subito prima del grande crollo di borsa del 1929 e a cavallo di un periodo tragico per l’Europa, che avrebbe condotto alla Seconda Guerra Mondiale. Il padre Enrico è un internazionalista e uno dei più rispettati avvocati in città. La famiglia, ebraica, ha radici a Casale Monferrato a un centinaio di chilometri a Nord, in Piemonte. In piazza a Casale c’è ancora una scritta Mercato Pavia vicino alla piccola sinagoga, una delle più belle d’Italia. La famiglia si ingegna: un nonno, Tobia Pavia, fonda con Max Vitale una società commerciale per fare attività di import export principalmente con la Gran Bretagna e principalmente di whisky. La famiglia poi uscì dall’azienda, ma la Max Vitale è ancora oggi numero uno in Italia per l’importazione di whisky scozzesi.
Enrico Pavia parte per la Prima Guerra Mondiale a 16 anni, in cavalleria, fa la spola fra le truppe francesi e quelle italiane, viene decorato al valore poi si lancia nella professione fino al brusco capolinea del fascismo e delle persecuzioni razziali promulgate dal regime di Mussolini nel 1938. Per quelle leggi Enrico deve lasciare la professione e i figli devono lasciare le scuole. Ha contatti in Inghilterra dove aveva studiato, viene internato nell’Isola di Man, poi prepara con la famiglia la grande traversata atlantica, la fuga in America, la partenza nel 1940 sul transatlantico Western Prince, che sarà affondato nel viaggio di ritorno. Tutto questo lascia un segno indelebile nella coscienza e nella filosofia di vita del giovane George, soggetto a dolorosa discriminazione razziale e costretto alla fuga, rischiando la vita, poco più che ventenne.

A New York Enrico si ingegna, lavora con Citibank. I figli George e Bruno studiano legge. Fonda Pavia Harcourt e anche i giovani figli si avviano alla professione. Dopo la guerra Enrico rientra in Italia e riapre lo studio a Genova: “Mio padre si chiedeva: perché devo essere uno degli ultimi avvocati a New York quando posso essere uno dei primi in Italia?” mi raccontò George qualche anno fa, “Mio fratello rientrò con lui mentre io restai a New York. In poco tempo il nuovo studio Pavia Ansaldo apre uffici a Milano e Roma e diventa uno dei più importanti studi italiani”.
Lo studio americano e quello italiano lavorano insieme. Poi la rottura che segnò anche una frattura familiare molti anni dopo la morte del padre. George la ricostruisce così, con il suo stile schietto, asciutto e molto diretto: “Arriva in studio a New York inviato da Milano un tale Francesco Zini nel contesto dello scandalo Parmalat. Questo signore fa alcune porcherie che generano tensioni fra i due studi. Inutile recriminare, il rapporto si incrinò allora, punto e basta. Mio fratello restò con Pavia Ansaldo a Milano io con Pavia Harcourt ma la reciprocità fra i due studi finì”.
George ha continuato a recarsi al lavoro fino all’ultimo. Ormai ultranovantenne continuava a partecipare a vari consigli di amministrazione. Era felice di aver ceduto le redini a Giovanni Spinelli con lui in studio da molti anni: “Spinelli rappresenta la continuità di una lunga storia che ha radici nel secolo scorso, e in quello precedente”, mi diceva George che, fra l’altro ha avuto in studio persino una giurista del calibro di Sonia Sotomayor, oggi giudice della Corte Suprema americana!

Lo studio ha sempre fatto da ponte per aziende italiane ed europee che decidono di espandersi negli Stati Uniti a partire dalla Fiat e dalla Ferrari per espandersi nei settori bancario, della moda e del lusso. Fra i clienti Valentino, Ferragamo, Dolce & Gabbana, Roberto Cavalli, Unicredit (ormai da 60 anni), Ubibanca. Uno dei punti di forza dello studio è stato quello della specializzazione nell’assistenza individuale, ad esempio nel diritto civile e societario internazionale, Trust & Estate, del lavoro, dell’immigrazione e in guerre per l’arbitrato. Per seguire il cliente in ogni fase della crescita americana, dall’avvio commerciale alla ricerca di partner chiave locali.
Una delle caratterische chiave del successo di George è stata quella dell’umanità, del forte rapporto umano con i clienti. Poteva anche essere brusco, ma sempre focalizzato sul punto in discussione. Caratterizzato da una grande sicurezza era pragmatico come sono tutti i grandi avvocati affidandosi spesso più all’intuito, all’istinto e alla sua saggezza professionale che ai codici per risolvere un problema del cliente. Avendo assistito nei loro affari centinaia e forse migliaia di clienti gli chiesi quale considerava fosse stato il suo migliore affare: “La mia casa – mi disse – l’ho comprata a 365.000 dollari nel 1976, l’ho rivenduta un paio di anni fa a 20 milioni di dollari. Lo diciamo sempre: uno dei nostri punti di forza è proprio l’immobiliare”.
Quella casa, una townhouse nell’Upper East siede a un passo da Central Park sarà certamente rimasta nel ricordo di molti. Nei grandi saloni George ospitava un ricevimento annuale al quale partecipavano autorità imprenditori, e membri della comunità italiana a New York. Fu sempre un pilastro del ponte transatlantico. Con la sua morte si chiude un’epoca chiave del periodo successivo alla Seconda Guerra mondiale quando i rapporti fra Italia e Stati Uniti si fecero sempre più stretti. I suoi ricordi, lucidi e spesso densi di osservazioni argute su chi incontrò nella sua lunghissima vita professionale sono stati preziosi.
Mi resta il ricordo di una grande, antica stampa di Genova che teneva sempre in studio. Per me era simbolica di una radice comune. Anche mio padre era di Genova e anche lui dovette scappare durante il fascismo. Era una stampa a cui teneva molto, perché gli ricordava la sua gioventù, la sua città natale e il suo paese d’origine, che criticava per le sue incongruenze politiche, ma che amava davvero e che ha sempre continuato ad amare.