L’istante largo è il nuovo romanzo di Sara Fruner, edito da Bollati Boringhieri. Il libro è già alla seconda ristampa, una cosa più unica che rara per una scrittrice esordiente, soprattutto in epoca post-pandemica.
Nata a Riva del Garda, Sara Fruner si laurea in inglese a Ca’ Foscari, e si specializza in traduzione letteraria dall’inglese all’Istituto Superiore Interpreti e Traduttori di Milano. Per alcuni anni lavora nel campo editoriale, occupandosi di letteratura postcoloniale e traducendo autori quali Dionne Brand, Monique Truong, Sello Duiker, Don McKay. Dal 2017 vive a New York, dove è docente di italiano presso la New York University e il Fashion Institute of Technology. Con la scrittura, ama frequentare il cinema, arte letteratura e numerosi suoi articoli sono apparsi su La Voce di New York, CinematoGraphie, Magazzino 23, Brick. Collabora come traduttrice e performer con Magazzino Italian Art e il Center for Italian Modern Art. E’ Professional Member della Authors Guild e delle PEN America Women. Pratica il bilinguismo in poesia e la sua prima raccolta in inglese, Bitter Bites from Sugar Hills, è stata pubblicata nel 2018, mentre la sua raccolta in italiano Lucciole in palmo alla notte, è uscita nel 2019.
Il libro mette a fuoco l’intensità dei legami affettivi, tutto ciò che è rimasto in sospeso nel tempo ma che può rimodularsi in una nuova forma. L’autrice riesce perfettamente a modulare nel suo racconto i ricordi del passato che si accendono nella mente del protagonista, attraverso frammenti di incertezza che scivolano invece sulle lunghe strade del presente. La stabilità dei rapporti che si costruisce, giorno dopo giorno, tra parole scolpite su pezzi carta quasi come fossero cicatrici bruciate sulla pelle e non disinfettate o quelle polaroid sbiadite di un tempo lontano, lontanissimo, in cui è possibile udire il fragore di tutti quei piccoli tesori che abbellivano il volto e i vestiti.
Non è difficile immaginare la gioia di quei momenti, la bellezza del poco e del tutto e il fascino della semplicità, anche dei baffi finti su un volto di donna, ma è certamente comprensibile pensare che dietro quei volti ci fosse un affetto sincero. Un libro che racconta di parole scritte su fogli di carta e mai pronunciate, cementificate nella memoria di chi le legge e lentamente sbiadite; scatole riposte in alto e aperte al momento giusto perché contenenti verità tenute nel cassetto per alcuni anni, coperte da segreti proprio come un foulard rosso attorno al collo e riprodotte incondizionatamente da un amore e un senso materno e di protezione indissolubile.
Abbiamo intervistato Sara Fruner, autrice del libro e già collaboratrice de La Voce di New York.
– Come nasce il libro L’istante largo? Che genesi ha avuto?
“L’idea di questo romanzo è nata molti anni fa, da un racconto che scrissi per me. Come protagoniste aveva tre bambine, che diventavano ragazze, poi donne, molto diverse tra loro. Macondo era il frutto del loro strettissimo legame di amicizia. Mi è stato subito chiaro che un racconto non poteva bastare. Maia, Consuelo e Doriana chiedevano spazio: tre femmine forti che concepivano un maschio dotato di un’intelligenza straordinaria, un ragazzo con il passato inscritto nel nome, insieme, naturalmente al villaggio di Cent’anni di solitudine, il capolavoro di Gabriel García Márquez. Mentre guardavo questi tre personaggi dilatare e approfondire — la scrittura, dopotutto, è una grande casa degli specchi — ne incontravo altri, con storie altrettanto interessanti che chiedevano di essere raccontate. Avevo bisogno di un posto più grande per ospitarli tutti. Quale posto migliore di un romanzo?”
– Il libro si muove costantemente su diversi piani sequenza: presente, passato e futuro. Come hai deciso di strutturare questo aspetto durante la stesura?
“L’istante largo è un romanzo in cui la temporalità è fluida, e in cui il passato ha un ruolo fondamentale: fluendo nel presente, lo determina. Questo per dimostrare come il passato non sia mai veramente tale, ma continui a vivere dentro di noi, accanto a noi, e a fiorire sulla terra che siamo. Grande spazio è dedicato per esempio alla famiglia cilena di Rocío Sánchez, la nonna di Macondo, e alla storia dei mapuche, il popolo indios del Cile centro-meridionale che ha combattuto per decenni l’invasione spagnola e che ancora oggi si batte per rivendicare i propri diritti sulle terre dei loro antenati e sulla loro lingua, il mapudungun. Nulla di quanto è successo è morto e sepolto, né va scordato. E infatti quel tormento, quel destino di diaspora d’anima e corpo incarnati nel personaggio mapuche di Maitén, rivivono poi nel personaggio di Maia. Ma c’è anche il passato italiano delle Brigate Rosse — sfiorato nella storia tra Ernesto e Platone — un periodo che m’interessava portare, pur lateralmente, nel libro, visto che la mia generazione è cresciuta sentendone parlare molto poco. Quanto al futuro, vi si allude nella parte conclusiva del romanzo, ed è un po’ come una tela su cui s’intravede un abbozzo della nuova vita di Macondo”.
– Il silenzio rappresenta un fattore importante in questo libro, soprattutto la comunicazione non verbale. Cosa rappresenta per te questo aspetto? Oggi viviamo in un’epoca in cui comunichiamo costantemente con messaggi, telefonini etc. Che tipo di collocazione avrebbero oggi i messaggi scritti su fogli di carta?
“Macondo cresce nel silenzio, lingua dell’assenza per eccellenza — nel suo caso, quello delle tre madri — un silenzio interrotto dalla parola manoscritta della nonna che non può parlare. E la parola dalla nonna riflette il personaggio che è: una donna forte, decisa, con le idee molto chiare e un’eloquenza micidiale, e al contempo lirica. Il verbo di Rocío Sánchez ha qualcosa di potente, di divino: i suoi messaggi scritti, concessi con studiata parsimonia, suscitano, nel nipote e negli altri interlocutori, un misto di soggezione, attesa, senso di mistero, e si prestano all’interpretazione come versi/versetti, piccole perle di saggezza. La carta è un mezzo, esattamente come lo schermo di un computer o di uno smartphone. Ma la carta ha il potere di riempire uno spazio. Nel caso di Macondo, la scatola dei moonboot senza moonboot, dove il ragazzo custodisce i biglietti più significativi scrittigli dalla nonna. Oppure il quaderno giallo, che raccoglie i racconti più lunghi, e che la nonna gli fa trovare in giro per la casa. È anche grazie a questi oggetti affettivi, che Macondo cresce, e che gli permettono di instaurare un rapporto così profondo con Rocío. Sono essi stessi il lessico famigliare di casa Sanchez, così come le cose che sono rinominate: i foglietti che la nonna stacca dal taccuino appeso al collo diventano “scontrini”, e una bacheca appesa a una porta diventa la Torre di Babele”.
– Nel libro si parla di donne, bambini, affidamento. Temi sociali molto importanti e attuali. Come vedi la situazione nella società contemporanea?
“Anche se i tentativi di inserire soluzioni famigliari alternative sono stati fatti e si fanno, vedo tuttavia lo stesso modello della famiglia padre-madre-figlio avere sempre la meglio. Questo non corrisponde sempre alla realtà, anzi, vi corrisponde molto poco. Il mondo è pieno di tate che allevano figli altrui — come nel caso di Lotte Kruger con Berlino, amico di Macondo — pieno di nonni che crescono nipoti, pieno di madri presenti e padri assenti, o viceversa. Soprattutto in Italia — a New York le cose sono diverse — il legame di sangue viene ancora prima di tutto, e questo è un fatto. Mi piacerebbe che si cominciasse a spostare il focus sull’affettività. Sulle infinite famiglie che possiamo sceglierci nel corso di una vita, piuttosto che sull’unica che ci è data dalla genetica. Perché non cominciare a usare il plurale, invece che il singolare? Famiglie? Perché non investigare il concetto di elezione, piuttosto che quello di vincolo? Io non ho intenzione di infilare l’armatura della paladina della famiglia anticonformista. Difatti, nel romanzo, ogni modello di famiglia fallisce, anche quella alternativa, non solo quella tradizionale. La famiglia appare come un organismo che si trasforma, si adatta all’ambiente e all’evenienza, e può sbocciare da situazioni in cui il sangue non conta affatto. Fra le pagine troviamo molti legami altri, elettivi, come il sodalizio fra le tre madri, come la tribù di casa Sánchez, o i Noise, gli amici di Macondo. Questo per dire la grande creatività di cui l’affetto — l’amicizia — è capace”.

– E’ un libro che parla di donne ma è un libro rivolto anche alle donne. Quale messaggio vuoi lanciare a tutte le donne che ti leggono e ti leggeranno?
“Sì, è un libro che strizza l’occhio alle ragazze e alle donne, pieno di ragazze e donne determinate. Rocío Sánchez è ovviamente in testa, ma è seguita a ruota dalla Bea, migliore amica e amore di Macondo, ragazza ribelle, sfrontata, piena di talento e di voglia di trovare la sua strada. Ma anche le tre madri stesse, sono profili volitivi con caratteri ben definiti. Lo stesso vale per i personaggi femminili che gravitano attorno all’universo Sánchez, come Corinna, Rubi e l’Incisiva, oppure le ragazze che Macondo incontra di persona, o per interposta persona, cammin facendo — Dana, Angeleka, l’Avvocato Tiziana Sarpi, madre di Berlino. Premettendo che uno scrittore completo si accosta a quanti più animali appartenenti alla fauna umana possibile, se una ragazza o una donna legge di donne forti, caparbie, intelligenti, creative, quella lettrice le immagina. Vede che sono possibili. Vede che una se stessa così, può essere. I social media non sono i primi dispensatori di modelli della storia: lo sono la letteratura, il cinema, la scienza, la storia, l’arte. Quantitativamente parlando, però, la maggior parte di questi modelli sono maschili. Io stessa sono cresciuta con il giovane Holden Caulfield, con Huckleberry Finn, Sal Paradise, Martin Eden, Gregor Samsa, Demian, Werther, Amleto. Le eroine, sono andate a cercarmele dentro la storia e nei musei, sulla pagina scritta e sopra gli schermi cinematografici. Ne ho trovate — Harriet Tubman, Valentina Tereskova, Alice Guy-Blaché, Frida Khalo, Letizia Battaglia, Etty Hillesum, Sylvia Plath, Leonora Carrington, Toni Morrison, Catherine Earnshaw, Assunta Patanè, Holly Golightly, Arietty — ma ho dovuto cercarmele. Più ne diamo, più ne abbiamo, meglio è. Per tutti”.