Dopo mezzo secolo d’America vi spiego perché molti italoamericani sono simpatizzanti di Trump. Per loro il biondo platinato Donald racchiude tutto quello che non hanno avuto, ma hanno sognato. E’ la fotografia della loro interpretazione dell’ “American Dream”. Un po’ come è stato Berlusconi in Italia. E con Silvio Berlusconi Donald Trump ha anche un’altra affinità: Vladimir Putin. Ma di questo né gli italiani, né gli americani, vogliono sapere.
Tanti anni fa, in uno dei miei viaggi per scoprire gli Stati Uniti, finii per caso (e per stanchezza) in un villaggio a nord di Tulsa, in Oklahoma. Ero partito in ritardo in auto da Little Rock, in Arkansas e la sera ero troppo stanco per raggiungere Kansas City così mi fermai in un motel lungo il percorso. C’era veramente poco in quel villaggio in mezzo al nulla. L’unica attrazione locale era la tomba di Will Rogers, almeno così affermava una brochure nella lobby del motel.
Non sapevo nulla di questo attore, scrittore, giornalista americano. Il volto nel volantino pubblicitario mi era vagamente noto e lo associai ai film di cowboy che avevo visto da adolescente durante i miei anni di collegio. Mi incuriosii per la definizione sulla brochure che lo descriveva “the spokesperson of the common man” il portavoce dell’uomo comune. E la mattina dopo, prima di riprendere la strada per Kansas City, incuriosito, andai a visitare il giardino-museo dove era sepolto e scoprii questo grande, e poco conosciuto, scrittore.

Era un “native American” nato in una riserva indiana dei Cherokee, figlio di un capo tribù. Con molto umorismo scriveva durante gli Anni Ruggenti, parlava dei fenomeni politici dopo la Prima Guerra Mondiale, del Proibizionismo, dell’isolazionismo, delle tensioni sociali, del successo individuale, dei “self made men” e del loro culto della personalità, dell’automiglioramento e del narcisismo dei leader. Un Ralph Waldo Emerson dei poveri. Ma tutto questo lo scoprii al mio ritorno a New York. Scoprii anche che per 13 anni aveva avuto una colonna quotidiana per il New York Times dal 1923 al 1935 così come scriveva per il Saturday Evening Post e la domenica sera aveva un programma radio di un’ora: 40 milioni di americani pendevano dalle sue labbra e dalla sua penna. Parlava sempre del successo degli sfavoriti, dell’underdog, delle possibilità di riuscire a superare i momenti di difficoltà. Dava speranza nei cambiamenti e nel miglioramento della vita. Raccontava favole all’America assetata di buonismo.
Rogers fece finta di candidarsi alle presidenziali presentandosi con il motto “Se mi eleggete mi ritiro il giorno dopo”. “I democratici – scriveva – non sono mai d’accordo su nulla. Se lo fossero sarebbero repubblicani”. Ovviamente le sue erano battute, ma ad Election Day del 1932 gli elettori non trovarono il suo nome sulle schede elettorali e se ne andarono senza votare. Un Groucho Marx della politica che evidenziò sin da allora come nelle elezioni americane tutto fosse possibile, dove il sembrare è più importante dell’essere. Dove realtà e “alternative facts” si mescolano, si confondono e vengono accettate ambedue da una parte dell’elettorato che vuole vedere con il cuore e non con gli occhi. Dove simpatia e battute di spirito sono argomenti preferiti dagli elettori piuttosto che i contenuti.
Ai giorni nostri questa visione dell’uomo forte si è incattivita. Gli egoismi di un imprenditore-showman di successo hanno il sopravvento sulle rimostranze dei più deboli. I “colletti blu” d’America sono con lui. Stufi di vedere le loro tasse impiegate per cercare di risollevare una frangia della società che da due secoli stenta a stare in piedi da sola e si associano ad un presidente che non nasconde il suo disdegno nei loro confronti. C’è il risentimento per i benefici concessi ai più poveri, per le abitazioni a costi contenuti, per l’implementazione di Affirmative Action (le regole di supporto per la fascia più debole della società che tengono conto della etnia, religione, sessualità) per l’ingresso alle università e non solo. Per l’assistenza medica per i più poveri. Per gli assegni di indigenza. Il presidente solletica questi risentimenti e accarezza i bassi istinti dei “blue collar”, li istiga contro i più deboli, afroamericani, ispanici, cinesi. Per anni ha raccontato la bufala di Obama illegalmente eletto perché era nato in Africa. E tutti i suoi simpatizzanti ciecamente lo seguivano. “Non solo è nato in Africa, ma è anche musulmano” sostiene a tuttoggi Michael Savage, il giornalista radiofonico grande sostenitore del presidente durante le trasmissioni di “Savage Nation”.
Anche il Ku Klux Klan appoggia Trump afferma Savage. Chissà quanti italoamericani sanno cosa sia stato il KKK per la comunità italiana d’America. Chissà se hanno mai sentito parlare del linciaggio della Parish Prison di New Orleans nel 1891. Chissà se sanno come venivano trattati gli italiani nelle miniere di Monongah. O se hanno mai sentito parlare della Sunnydide Plantation in Arkansas dove in centinaia di meschini italiani erano in schiavitù nelle piantagioni. Ma la politica, si sa, vede e sente quello che le conviene.
Costruiamo il muro, afferma il presidente e tutti appresso. Sì, si, costruite il muro e poi la lattuga e i pomodori, l’uva e i meloni chi li raccoglie? E chi lava i piatti e pulisce i tavoli nei ristoranti? In tre mesi di Covid -19 i prezzi dei vegetali freschi sono triplicati, proprio per la mancanza della manodopera per la raccolta. Quello che secondo me spiega esattamente perché c’è questo profondo risentimento verso le minoranze, l’ho capito parlando con il mio giardiniere .“Vogliono pure essere pagati come gli altri – affermava urlando agli operai dalla sua auto che sul paraurti aveva uno sticker “Trump 2016” – prima li pagavo 50 dollari al giorno per 8 ore di lavoro. Ora vogliono il salario regolare, come gli americani”.