E’ un’America esasperata quella che vedo in questi giorni. Un’America frustrata dalle tensioni razziali, dal coronavirus, dal social distancing, dalla disoccupazione, dai timori per le incertezze del futuro. Se poi ci aggiungiamo le vetrine infrante, i negozi saccheggiati, le auto della polizia date alle fiamme, atteggiamenti orchestrati dagli odiatori professionali che si sono infiltrati tra i dimostranti, il cocktail letale viene servito. Il tutto, naturalmente, sottovalutato dall’odiatore in capo che dalla Casa Bianca tuona contro i governatori “deboli”, colpevoli, secondo lui, di non aver represso adeguatamente le violenze.

Un atteggiamento che mi ha fatto tornare in mente Anthony Imperiale, il senatore statale del New Jersey che nei primi anni Settanta aveva creato le “brownshirts”. Bassino, tozzo e rozzo questo senatore del Garden State che nel suo carniere politico vantava di aver sedato i tumulti razziali a Newark alla fine degli Anni Sessanta. Aveva avuto successo per il suo slogan “Quando le Pantere Nere escono i cacciatori bianchi aspettano,” frase che ripeteva mentre volteggiava una mazza da baseball. Aveva formato le Brownshirts, pattugliava la Seventh Avenue, la First Ward, la Chiesa di Santa Lucia, una Little Italy questa di Newark ora scomparsa che venne fondata da migliaia di immigrati italiani di Materdei, Muro Lucano, Pescopagano.
Agli inizi degli Anni Settanta, ero capocronaca al Progresso Italoamericano e conobbi, e incontrai, il senatore Imperiale numerose volte. L’ultima, che ricordo, fu nel 1974 al processo che si teneva a Queens per l’agente di polizia, Thomas Shea, imputato per l’omicidio di Clifford Glover, un bambino afroamericano di 10 anni. Il processo si concluse con l’assoluzione del poliziotto. Subito dopo il verdetto esplose la rabbia razziale per le strade di Jamaica a Queens: auto date alle fiamme, una ventina di poliziotti feriti, vetrine infrante, ricevitori di cassa saccheggiati.

Il mio amico Paul Draghi, un detective molto acuto che era anche presidente dell’Associazione Valtrebbia Valnure, mentre uscivamo dal tribunale a Kew Garden mi disse: “Viviamo nello stesso Paese, ma in due mondi differenti”. Una frase che è rimasta impressa nella mia mente per cinquanta anni e che ogni volta che scoppiano tensioni razziali ricordo. E ricordo le violenze di Crown Heights, l’omicidio di Yankel Rosenbaum e quello dimenticato, avvenuto la stessa sera, di Anthony Graziosi, trascinato fuori dall’auto e accoltellato a morte solo perché aveva la barbetta bianca ed era vestito di nero.
Mi ricordo Los Angeles in fiamme nel 1992 dopo l’assoluzione dei poliziotti che pestarono a sangue Rodney King. Sei giorni di fuoco, di saccheggi nei negozi soprattutto quelli di elettrodomestici dei coreani. La violenza, la rabbia e le razzie come forma piratesca di vendetta. Ripenso alla difficile, faticosa, integrazione dei nostri immigrati qui negli Stati Uniti, delle ingiustizie subite, delle discriminazioni patite e le confronto con quelle della comunità afroamericana e sorrido pensando “ai due mondi differenti” di Paul Draghi.
Ripenso come i nostri immigrati qui si siano rotti la schiena scavando i tunnel per le metropolitane, scaricando navi, costruendo case. Vita di sacrifici, ma avevano un lavoro. Duro, difficile, massacrante, ma lavoro. Un lavoro che ha santificato le asperità delle loro esistenze, un lavoro che li ha migliorati. Li ha tolti dall’indigenza portandoli alla prosperità, al miglioramento della qualità della vita per i loro figli. In una, due, generazioni, sono usciti fuori governatori, senatori, avvocati, giudici, medici, professionisti di eccelsa qualità. E il mio pensiero vola alle altre comunità. A quelli che cercano di scappare dalla fame e dalla violenza del Centro America. Ripenso alle parole scritte da Allen Ginsberg in “America”… “I haven’t got a chinaman chance”, e penso come l’America abbia trattato gli altri immigrati. Mi domando se per tutti sia stato usato le stesso metro, se a tutti siano state date le stesse possibilità di successo e di miglioramento. Anche a quelli portati qui in catene e se i due mondi avranno mai la vera possibilità di integrarsi.