Gabriele D’Annunzio si sta rivoltando nella tomba. Non perché è stata posta una sua statua in piazza della Borsa a Trieste, ma perché è un obbrobrio. Il Vate era un esteta e vedersi raffigurato come un vecchietto, seduto su una panca, che non riesce ad appoggiare i piedi per terra, beh è un’offesa alla sua levatura culturale. Ma sono pronta a scommettere che né il sindaco forzista di Trieste, Roberto Di Piazza, diploma di licenza media (forse), né il suo alter ego, l’assessore alla cultura Giorgio Rossi, geometra, si sono letti nemmeno un’opera del Vate. Il loro interesse a porre “la statua della discordia” a Trieste, inaugurandola il 12 settembre a 100 anni dall’impresa di Fiume, è puramente elettorale. Come sempre.
A Trieste – che fu porto mitteleuropeo, centro della psicanalisi italiana, e infine città irredentista a causa della slavizzazione delle terre adriatiche da parte dell’impero austro-ungarico – sono rimasti 60 mila italiani, dei 350 mila istriani e dalmati fuggiti all’avvento del comunismo jugoslavo dopo la seconda guerra mondiale. Oggi tra matrimoni e figli sono molti di più e votano a destra, qualunque candidato gli si propini. Io sono figlia di dalmati che hanno perso tutto, all’infuori della vita, ma non voto chi per acquisire potere si approfitta della mia condizione, cercando di fare leva sui miei sentimenti, senza peraltro aver mai mosso un dito in sede nazionale o internazionale per fare valere i diritti di proprietà degli istriani e dei dalmati.
L’acculturata Trieste è in mano a politici che hanno fatto carriera proprio perché non hanno perso tempo a studiare e nemmeno, facendo un atto di umiltà, si danno da far per affermare la forza della cultura italiana in questo momento storico. A Trieste non c’è alcuna iniziativa culturale di rilievo nazionale. C’è invece la volontà di bivaccare all’amministrazione comunale ponendo in atto politiche revansciste per ingraziarsi appunto gli esuli.
Fatta questa lunga premessa, mi chiedo come il governo italiano ad oggi non abbia speso una parola per affermare la propria sovranità nazionale all’interno dei propri confini dopo l’affermazione della presidente della Croazia, Kolinda Grabar-Kitarovic. “Fiume era e rimane una parte fiera della patria croata. Il monumento scoperto oggi a Trieste, che glorifica l’irredentismo e l’occupazione di Fiume, è inaccettabile ”. Inaccettabile, caro presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, e caro presidente del governo Giuseppe Conte, e caro ministro degli Esteri Luigi Di Maio, è che vi facciate bacchettare a livello internazionale da uno Stato di 4 milioni di abitanti che sopravvive grazie ai contributi europei e agli europei che ci vanno in vacanza, tra cui gli italiani sono tra i maggiori contribuenti. Che vi facciate, in breve, umiliare da una presidente croata che non conosce la storia o vuole mistificarla per interni nazionalismi dai quali, pure lei, trae linfa elettorale. Perché negare che Fiume sia stata città italiana è negare la storia.

(foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)
In sintesi: gli slavi cominciarono a invadere sistematicamente i Balcani del sud nel VII secolo d.C. Un regno di Croazia esistette nel basso medioevo per un secolo e mezzo, fino all’inizio dell’anno 1000. Le coste adriatiche erano abitate dagli Istri, dai Liburni e dai Dalmati che slavi non erano. Non riuscendo a federarsi, finirono per mezzo secolo sotto la soggezione ungherese. All’inizio del ‘400 il re Ladislao d’Angiò vendette la Dalmazia a Venezia per 100 mila ducati. Dopo la caduta di Venezia, nel 1814 con il trattato di Parigi l’Austria acquisì Istria e Dalmazia, mantenendo legislazione e scuole in lingua italiana, perché il popolo slavo, che pure gli austriaci prediligevano per l’atteggiamento servile, era in maggior parte analfabeta. Con la sconfitta dell’impero austroungarico alla fine della prima guerra mondiale, nel 1919 l’Italia, che faceva parte delle potenze vittoriose, rivendicò alla Conferenza internazionale della pace di Parigi Istria e Dalmazia, ad essa promesse con il patto segreto di Londra del 1915. Il presidente americano Wilson si oppose per “creare stati etnicamente omogenei”. Così nacque il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Il 12 settembre 1919 Gabriele D’Annunzio con i suoi legionari occupò Fiume, per annetterla al regno d’Italia. La reggenza italiana del Carnaro durò 16 mesi, fino a che il governo Giolitti intervenne militarmente a dicembre 1920: il Natale di sangue.

Dieci anni dopo, nel 1929 il re serbo Alessandro I con un colpo di stato proclamò il Regno di Jugoslavia, affermando la superiorità del popolo serbo. Nel 1941 il figlio Paolo II ruppe l’alleanza con l’Asse (Italia e Germania) e la Germania invase la Jugoslavia, coadiuvata dall’esercito italiano. Delle nefandezze perpetrate dai nazisti tedeschi (deportazioni e roghi umani) i croati non parlano, solo dell’anno e mezzo sotto amministrazione italiana. Come mai? Per incolpare coloro a cui hanno rubato le proprietà detenute da 5 secoli lungo le coste dell’Adriatico. La coscienza morale croata non è vergine e sarebbe stato meglio che Kolinda fosse rimasta zitta. Ma forse ignora la storia del territorio in cui vive: cosa si può pretendere dallo Stato croato che insegna la storia falsificandola, cancellando 500 anni di Serenissima, come se dal medioevo fosse passato all’impero asburgico? E lo attestano le dichiarazioni ridicolmente bellicose da basso medioevo della presidente croata.