Non bisognerebbe mai scrivere di un personaggio pubblico, quando con lui si ha una frequentazione privata, fatta di condivisione di amici, ideali, iniziative culturali, memorie, affetti famigliari. Ciò che si scrive rischia di essere influenzato dall’esperienza personale, con il risultato che non ci sarà il distacco e l’obiettività che sempre si devono al lettore.
Eppure ci sono circostanze eccezionali, o drammatiche, come quella di oggi, con il funerale del professore emerito e direttore del Centro Studi Italiani di Stony Brook, Mario Mignone, che chiedono di violare la regola, in nome del rispetto e del ricordo che si devono a chi è già in quel sentiero definitivo che noi umani, tutti, siamo destinati a percorrere.
Mario è stato un maestro, un amico, talvolta un fratello maggiore. Mai eccessivo o sopra le righe nel proporre la sua autorità e saggezza; sempre onesto nel condividere o dissentire; istintivo nel distanziarsi da comportamenti e scelte che non condivideva, soprattutto sul piano morale. Il che non ne faceva necessariamente persona “facile” da frequentare e con la quale confrontarsi. Da buon meridionale – era nato a San Leucio del Sannio e cresciuto in un sobborgo di Benevento prima di emigrare negli Stati Uniti – impiegava anche anni prima di dare a qualcuno piena fiducia, ma poi, sicuro del giudizio, non la toglieva più. Salvo ovviamente scoprire gli sgarbi, gli sgambetti, le ambizioni ingiustificate, la fannulloneria, che, nella vita professionale, vengono incontro ad ogni angolo di corridoio o porta che si apra: cose tutte che lui cordialmente detestava e scansava.
Era anche una questione di schiena dritta, e l’arroganza, intellettuale o personale, non c’entrava nulla. Anzi, Mario, discendente di una stirpe contadina da secoli abituata ad avere occhi bassi e cappello in mano, nei rapporti personali e professionali sceglieva sempre l’understatement, il profilo signorile della gentilezza e del rispetto per gli altri.
Così che ogni tanto a qualcuno capitava di sbagliarsi, di non comprendere quale ferro durissimo ci fosse sotto il morbido guanto con il quale Mario usava coprire la mano che ti porgeva. “L’umiltà non è ancora un difetto”, capitava di dirsi, pensando ai tanti che scelgono di proporsi sbattendo i pugni, e altro, ammesso che ne abbiano davvero, sul tavolo. Questa della prepotente insolenza, e del pressappochismo ambizioso degli ignoranti, era una fetta di italianità dalla quale era scappato: l’arroganza del “lei non sa chi sono io”, la presunzione di meritare privilegi per sé e servilismo dagli altri. Figurarsi se poteva tollerarli nella terra delle libertà e dell’affermazione attraverso il merito, che aveva scelto come sua nuova casa.
Alla scuola di Pascoli, le Myricae della vita a lui risultavano istintivamente preziose.
Le gioie familiari, ad esempio; i successi collezionati dalla vasta famiglia di sanniti trapiantati, che raccontava come fossero le cronache di una festa perpetua; le soddisfazioni professionali e i riconoscimenti pubblici dell’immigrato senza arte né parte che tutto si era guadagnato ammazzandosi di fatica e spremuta di intelligenza; il lievitare del Centro di Studi Italiani e dell’editoria di Forum Italicum.
Ma meritavano anche le partite di calcio, che la tecnologia gli scodellava da qualche anno in casa, e dove tutto cominciava e finiva sempre con l’ammirevole sua fedeltà al piccolo Benevento. Così i comfort della sua casa e del suo giardino, recinto di intimità da difendere dalla natura selvaggia se serviva, a cominciare dagli invadenti cervi sul cui uso politico aveva molto da ridire.
È cosa dei grandi spiriti saper apprezzare le cose piccole e scoprirne la bellezza nascosta.
Il bello per Mario era una categoria dinanzi alla quale si illuminava e restava incantato. Anche per questo amò sempre l’Italia, paese di bellezza immensa, benché sapesse, come tutti gli emigrati, che era stata con lui matrigna. Lo aveva scacciato, come aveva fatto e avrebbe continuato a fare con le decine di milioni di altri emigrati ai quali negava il sogno di un’opportunità di vita degna e rispettata in patria. Quel tosto e cocciuto professore, fattosi tale spezzandosi la schiena giovanile nello studio dopo le lunghe ore di lavoro, ne avrebbe scritto di quella migrazione eterna, senza fare nessuno sconto alla storia del suo paese, al cinismo e alla capacità di sfruttamento dei ceti più poveri che da sempre la pervade. Si leggano le sue pagine in Fratelli d’Italia, pubblicato da Forum Publishing, nel centocinquantenario dello stato unitario.
Il che, tuttavia, non gli impediva di restare perennemente innamorato del suo paese delle origini. Anche per questo, oltre che per ragioni professionali, non perdeva occasione per proporre la penisola agli americani: studenti, colleghi, amici o vicini di casa che fossero. Anche per questo portava anno dopo anno drappelli di studenti a soggiornare in Italia per periodi di studio. Anche per questo fu tra gli iniziatori del programma Ponte e padre nobile della fondazione di Aiae, Association of Italian American Educators, la cui prima missione fu di costruire un ponte di continuità fra studenti universitari discendenti da italiani e il paese di origine degli avi, attraverso borse di studio e altro.

L’ultimo suo Grand Tour, lo scorso luglio, lo portò, in quello che purtroppo sarebbe stato l’addio all’Italia, a cenare sulla terrazza ristorante che sta accanto a Trinità de’ Monti: con Lois, gli amici della fondazione Bruno Buozzi, e … l’immensa bellezza di Roma distesa sino al fondale del cupolone michelangiolesco di san Pietro. Cibo buono, il conversare di politica (grande passione di Mario!) e società civile con il presidente della fondazione, il senatore Giorgio Benvenuto, ma anche il continuo gettare lo sguardo sui colori della città e sul grande disco rosso del sole che si accomodava dietro la collina di monte Mario.
Recentemente Stony Brook aveva scelto di aprire a Firenze, spinta da circostanze favorevoli e da un’amministrazione cittadina migliore di quella romana (non ci vuole molto, purtroppo per i romani!). Mario era istintivamente “romanofilo”, ma figurarsi se poteva non amare anche Firenze, dove iniziò a lanciare un appuntamento autunnale di riflessione e dibattito che, come le tante altre sue iniziative, sarebbe sicuramente diventato, con il tempo, riferimento obbligato di chi si occupa di cultura italiana e americana.
E qui una parentesi indispensabile sul fatto che per Mario il concetto di cultura, poco alla volta, si fosse ampliato dalla critica letteraria, alle espressioni del sociale che potessero influenzare la formazione intellettuale e morale delle persone. Fu come se, crescendo in autorevolezza accademica, potesse finalmente ribadire in pubblico idee ed esperienze di vita, fatte anche di lotta sociale e idee politiche. Basta scorrere l’elenco nel tempo, dei temi toccati dalle sue pubblicazioni maggiori (dagli iniziali studi su De Filippo, Dino Buzzati, Pirandello, Moravia, a Columbus: Meeting of Cultures, Italy Today nelle sue tre edizioni, Altreitalie: Cittadinanza e diritto al voto, Explorers, Emigrants, Citizens) e dei convegni che ha organizzato al Centro, a Stony Brook come a Firenze, per trovarne conferma. In quelle iniziative il sociale e il politico, anche la politica internazionale, trovavano lo spazio che a lui, e a tanti suoi collaboratori, sembrava giusto e doveroso. Si confermava uomo “rinascimentale”: creativo, curioso e onnivoro. Il convegno di novembre al quale stava ora lavorando, Quo vadis Europe?, è lì a confermarlo: convocato con tempestività appena dopo elezioni europee e nuova Commissione.
Il suo “luogo” di bellezza italiana restò sempre il beneventano, topos dell’infanzia, della famiglia, delle radici, del ricordo: “ il paesaggio era bellissimo, così pittoresco, fantastico”, scrive in L’America e la mia gente, ricordando il giorno del distacco verso l’America, lui ventenne ragazzo volitivo in cerca di futuro, e la famiglia in lacrime intorno.
Riandando al giorno della partenza da Benevento – 8 settembre, dolorosa coincidenza! -, da bravo professore di letteratura non evita la citazione colta delle “bellissime pagine di ‘Addio ai monti’ di Lucia nei Promessi Sposi” ma, reso omaggio a Manzoni, va dritto al ricordo dell’addio ai suoi, di monti, con il sole del meridione che ne diventa protagonista: “ … dal finestrino gettavo occhiate malinconiche alle montagne, alle colline e al paesaggio illuminato dai raggi del sole mattutino che creavano un intreccio di luci e ombre. C’erano piccoli borghi, case; molte scene familiari scorrevano veloci davanti ai miei occhi. Continuavo a vedere, stampata nella mente, anche la nostra casa, in cima alla collina, con di fronte l’enorme betulla.”
Il ragazzo che emigra, quando scrive agli inizi del secondo decennio del nuovo secolo, è professore stimato e autorevole nella prima università dell’East Coast statunitense: ha vinto la sua battaglia contro povertà e anonimato. Ma i sentimenti sono ancora lì dove l’orologio intimo si è fermato, scavando un solco che lui non ha mai inteso colmare. C’è un prima di quel 1960, e c’è un dopo. “Era senza dubbio un’immagine triste. Ogni luogo e ogni suono mi erano familiari. Li avevo visti e sentiti sin dall’infanzia. … Venivo espulso da un destino avverso … “.
Seppe rifarsi alla grande. Si riprese l’Italia muovendo da oltre Atlantico, stimato e rispettato in università e istituzioni nelle quali entrava ormai dalla porta principale. Fu Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana. Ed ebbe la soddisfazione di presentare i suoi libri in luoghi di prestigio, anche istituzionali, come capitò all’ottimo Explorers, Emigrants, Citizens: A Visual History of the Italian American Experience from the Collection of the Library of Congress. Opera monumentale, edita prima in inglese poi in italiano, che ha reso visibile anche alle giovani generazioni cosa sia stato il periodo storico della nostra emigrazione e quanto valorosi siano stati gli italiani che si sono fatti onore in una terra così dura come gli Stati Uniti. E questo fu possibile anche perché, alle sue indubbie qualità e capacità naturali, Mario unì sempre tenacia e sete di conoscenza. Le tecnologie informatiche ad esempio, che molti uomini della sua età avevano considerato inaccessibili, rinunciandovi, trovavano in lui una persona interessata a scoprirle e ad utilizzarne ogni possibile anfratto, fatte salve frivolezze volgarità e fronzoli che proprio non gli appartenevano, essendo lui uomo così compito ed essenziale.
Proprio le nuove tecnologie elettroniche gli consentivano il contatto con gli amici lontani. Sempre attento, interrogava sulla politica italiana (e sul calcio, e sul costume, e sulla letteratura, e sull’arte).
In un momento di tristezza infinita per la perdita dell’amico, voglio riprodurre l’ultimo nostro scambio di opinioni, in piena crisi di governo, qualche giorno fa. C’è tutta la sapienza di Mario, con la pacatezza e l’ottimismo dei forti che gli apparteneva. E ci si ritrova il gusto per la sua parola sapida e insieme lieve.
La conversazione inizia con una domanda discreta: “Non ti chiedo sulla rinomina di Conte. Non eri contento con il primo mandato, posso immaginare adesso”. La risposta considera che Conte nel frattempo è migliorato e che i 5 stelle intelligentemente lo cavalcano; mette quindi in fila le reticenze sul nascente governo.
Lui fa la paternale: “Sta buono e calmo perché nella storia c’è stato molto di peggio. Si dice spesso che certe situazioni per migliorare devono prima peggiorare”.
Ribattuta ironica, masticando amaro: “Allora va benissimo. Dopo 30 anni di continui peggioramenti avremo il Rinascimento. Peccato che fra un po’ non avremo neppure più la popolazione per farlo!”.
E lui, imperturbabile, e purtroppo con una frase che, davanti al suo corpo immobile, oggi suona terribile: “Ottimo. Rimboccati le maniche e lavora per il rinascimento, ma fallo subito, perché vorrei vederlo”.
Credo ci sia tutto il Mario che molti di noi abbiamo conosciuto e amato. E che ci mancherà tantissimo.
È il Mario che chiamerei filosofico, di una filosofia pratica, saggia, che ha donato, con la parsimonia del suo pudore contadino, a chi ha avuto la fortuna di incontrarlo e di stargli vicino.
È stato certamente tragico questo modo di andarsene, repentino e inaspettato. Eppure anche l’ultimo atto ha espresso un magistero socratico da non sottovalutare. Mario che, con Lois, riunisce in casa colleghi e amici, per la tradizionale cena della ripresa dell’attività accademica. Mario che è anfitrione cortese, va di tavolo in tavolo dando come sempre un sorriso e una battuta appropriata. Mario che stringe le mani e abbraccia. Poi il passo estremo con Atropo che taglia il filo. Non è stata sua la regia di quella sera tragica, eppure l’atto dell’incontro e della comunione di sentimenti e pensiero è stato come un sigillo nobile alla sua nobile vita.
Per Mario valgano le parole che Marguerite Yourcenar fa dire ad Adriano, in fondo al suo Memorie: “Animula vagula blandula, Hospes comesque corporis … Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo … Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari … Cerchiamo d’entrare nella morte ad occhi aperti…”. Greci e romani antichi chiudevano gli occhi del defunto con una moneta, per pagarne il traghettamento verso Ade e Averno. Che i tuoi occhi restino aperti, come in vita, caro e buon amico.
Information regarding arrangements for funeral and burial of Prof. Mario Mignone.